Vi ricordate il clamore suscitato dai “Panama papers”, ossia quei documenti appartenenti all’archivio dello studio legale panamense Mossak Fonseca che hanno rivelato gli affari “riservati” di uomini d’affari, capi di stato, star dello sport e dello spettacolo?
Bene, se quello scandalo ha sollevato un polverone mediatico, quello che si sta profilando ora rischia di provocare un vero e proprio tsunami, perché stavolta i “Paradise papers” scovati e diffusi sempre da Icij ( il consorzio internazionale dei giornalisti investigativi) provengono da Appleby, società che si occupa di fornire consulenza legale e servizi fiduciari, di trust e di entità offshore ad alcune della maggiori società mondiali operanti in settori che spaziano dalle banche e servizi finanziari ai fondi e servizi d’investimento, dalle assicurazioni e riassicurazioni al private equity, dalle energie e risorse naturali ai giochi online, dai trasporti e logistica alla tecnologia.
I clienti di Appleby sono colossi del calibro di Credit Suisse, Barclays,Hsbc, Standard Chartered, Bank of America, Alliance Group, Oversea Chinese Banking Corporation, Lloyds, JP Morgan, Goldman Sachs, Blackstone, Cvc Capital Partners, piuttosto che Royal Dutch Shell, Cepsa, Total E&P Dolphin Upstream, Glencore, Apple, Nike, Allergan e altre ancora. In tutto sono oltre 100 le multinazionali i cui interessi e attività offshore sono state rese pubbliche (oltre a quelli di 120 personalità politiche mondiali tra cui la regina d’Inghilterra, Elisabetta II).
In tutto sono stati esaminati 13,4 milioni di files, che hanno rivelato 7,4 milioni di documenti relativi ad accordi di finanziamento, prestiti e atti fiduciari) che hanno coinvolto Appleby negli ultimi 66 anni, dal 1950 al 2016. Ad un primo esame, peraltro, non sarebbero emerse situazioni illegali evidenti, anche perché compiere operazioni off-shore non è di per sé illecito. Tuttavia gli stati membri dell’Unione europea, domani, discuteranno piani per una nuova “lista nera” dei paradisi fiscali per cercare di porre fine al fenomeno dell’elusione fiscale off-shore. Un tema che, nonostante da mesi si cerchi di trovare un accordo, inizialmente non era in agenda per la riunione di novembre dei ministri delle finanze Ue, ma che è stato inserito proprio dopo che sono stati diffusi da Icij i “paradise papers”.
Da tali documenti finora non sono emersi nomi di personalità che abbiano avuto rapporti con società italiane, salvo quello di José María Figueres, dal 2000 al 2004 capo del World Economic Forum (Wef) e nel biennio 2001-2002 consigliere di amministrazione di Energia Global International, società con sede alle Bermuda diventata nel 2001 una controllata di Enel Spa. Per ora come non vi sono conferme della violazione di alcuna normativa fiscale specifica così non si hanno indiscrezioni circa il tipo di sanzioni che la Ue o i singoli stati potrebbero imporre alla società che fanno uso di attività e conti off-shore. Secondo quanto dichiarato dal Commissario Ue agli affari economici e finanziari Pierre Moscovici una “lista nera” credibile e sanzioni “adeguate” dovranno essere la risposta ad eventuali comportamenti elusivi che dovessero emergere.
Per Moscovici la lista nera europea dovrebbe essere più “ambiziosa” di quella già esistente dell’Ocse (che attualmente include solo Trinidad e Tobago come giurisdizioni “non cooperative” in tema di trasparenza fiscale). Da notare che secondo Reuters “alcuni paesi europei restano scettici sulla lista nera e sono essi stessi sotto esame per ingiusta concorrenza fiscale”, come Lussemburgo, Malta e Irlanda, che da anni attraggono le multinazionali con livelli minimi di imposizione fiscale sui redditi da impresa. Per vincere tali resistenze la Ue potrebbe prevedere che nella sua lista nera compaiano unicamente paesi non-Ue e che gli stati che impongono basse o nulle tasse sul reddito d’impresa non siano automaticamente considerati dei paradisi fiscali.
Del resto in materia fiscale è necessaria l’unanimità di tutti i 28 aderenti alla Ue, non essendo mai state testate procedure straordinarie. Sarà pertanto difficile che i “paradise papers” possano avere una ricaduta concreta, troppo elevati essendo gli interessi in gioco, basti pensare che nonostante da mesi si discuta di rendere obbligatoria la comunicazione per le grandi multinazionali dei profitti realizzati e delle imposte pagate in ciascuno stato in cui operano, o la pubblicazione di un registro che mostri a chi fanno capo realmente le diverse società, non se n’è fatto nulla per l’opposizione di paesi come la Germania. E se persino la solitamente “austera” Berlino non vuole, è difficile che in Europa si trovi un’intesa su un argomento così delicato, sotto tutti i punti di vista.
Luca Spoldi