Pil, incognita Referendum. Amundi: ecco perché cresciamo così poco
Gli analisti del colosso del risparmio gestito analizzano i ritardi dell'economia italiana e prendono in considerazione l'impatto del Referendum sul Pil
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Produttività stagnante, operatività del sistema bancario al minimo e fragilità dei governi che incide sul nostro ritardo atavico nell'attuazione delle riforme. Sono i mali strutturali che secondo Amundi, il colosso francese dell'asset management, pesano sull'Italia e fanno sì che la crescita del nostro Paese rimanga particolarmente debole rispetto alla maggior parte degli altri Paesi di Eurolandia. Una congiuntura su cui ora pesa anche, fanno notare gli analisti finanziari di Amundi in un report ad hoc sul nostro Paese che Affaritaliani.it pubblica qui sopra, anche l'incognita del referendum costituzionale (Ddl Boschi).
"Una vittoria del No al referendum del 4 dicembre - scrivono infatti gli esperti - avrebbe conseguenze molto problematiche nel preservare la capacità del Senato di bloccare le nuove iniziative del governo indebolendo l'attuale esecutivo, che inizialmente ha fatto sperare in trasformazioni significative per l'economia". In più, la sconfitta delle posizioni del fronte renziano nella consultazione elettorale potrebbe rallentare anche la ripresa degli investimenti. Un po' l'effetto che gli economisti di tutto il mondo hanno teorizzato nell'esaminare gli effetti della Brexit sull'economia del Regno Unito.
La situazione di partenza non è delle migliori. Nonostante nel 2015 il Pil reale della zona euro sia tornato al livello pre-crisi, risalente al primo trimestre 2008, il ritardo della ripresa in Italia è evidente: il Pil tricolore ha recuperato solo in minima parte quanto perso dal 2008. Oggi è pressoché simile al livello di inizio millennio. Questa stagnazione è in contrasto con la crescita pari a circa il 20%, a partire dal 2000, per Francia e Germania, e pari a circa il 26% per Spagna, che è stata duramente colpita dalla crisi degli ultimi anni, ma che, a differenza dell'Italia, è in forte ripresa dal 2013.
Secondo Amundi, sono due i colpevoli ben identificabili: le banche che non si sono ristrutturate come invece è avvenuto negli altri Paesi periferici sotto la spinta dei programmi di assistenza della Troika e la fragilità dei governi. Debolezza che ha giocato negativamente sulla fiducia e sulla ripresa degli investimenti. Inoltre, i tassi bassi della politica monetaria della Bce hanno giocato a sfavore delle famiglie italiane. A questi fattori che hanno condizionato le performance dell'economia italiana nel riuscire ad archiviare la Grande Crisi del 2008, devono aggiungersi i mali tradizionali che sono molto più profondi e radicati.
Mentre colpisce la debolezza del rimbalzo ciclico dalla fine del 2012, la sottoperformance economica del Paese risale a ben prima della crisi (crescita media annua intorno all’1,5% per il periodo 1990-2007, contro il 2% di Francia e Germania). Da dove deriva la sottoperformance di lungo termine? Gli studi sul tema non mancano: per anni, le istituzioni europee hanno instancabilmente sottolineato molte disfunzioni sia nel settore pubblico che in quello privato. I temi più ricorrenti si intrecciano e sono la mancanza di trasparenza, la mancanza di concorrenza, e molteplici resistenze del mercato del lavoro così come del mercato dei
beni e dei servizi che ne hanno da tempo intaccato la competitività esterna.
Gli analisti di Amundi citano solo un paio di segni di miglioramento, in maniera più specifica sull’occupazione, dato che il Job Act del 2014 inizia ad avere un qualche effetto. Tuttavia, è difficile immaginare che la ripresa acceleri davvero, senza ulteriori riforme che riguardino ancora il mercato del lavoro e altri campi. In tal senso, una vittoria del No al referendum di dicembre sarebbe un evento molto sfavorevole.
Il risultato è uno scenario di lieve miglioramento, con una crescita prevista per il 2017 appena al di sopra dell'1% (contro lo 0,8% nel 2016) e che potrebbe essere parzialmente rivista in considerazione del verdetto popolare del 4 dicembre. Con una caratteristica ormai costante: comunque inferiore a quella di altri grandi Paesi della zona euro.