Economia

Private equity, IdeaMi debutta a Piazza Affari, in cerca di Pmi

Luca Spoldi

Borsa, tutti pazzi per le pmi. Tocca a De Agostini con IdeaMi. Si scalda Mediobanca. Il business

I tassi che sui mercati obbligazionari restano da anni vicino o sotto zero (in termini reali), indipendentemente dal grado di rischio dell’investimento, il valore cospicuo che ancora viene attribuito ai principali marchi e gruppi del “Made in Italy”, l’opportunità di creare valore tramite operazioni straordinarie di fusione e acquisizione legata al passaggio generazionale e, buon ultimo, gli incentivi fiscali a chi investe capitali privati nelle migliori Pmi italiane.

A spiegare la passione per il private equity che da alcuni anni sempre più sta contagiando gli investitori grandi e piccoli italiani è un mix di fattori che sembra destinato a durare ancora a lungo, tanto che anche chi finora era rimasto ai margini del settore sta rompendo gli indugi e facendo il proprio ingresso. E’ di oggi la notizia che IdeaMi, la Spac istituzionale promossa da Banca Imi e DeA Capital, sta già vagliando 120 possibili aziende-target, con un valore che potrebbe salire fino a un miliardo di euro.

“Le aziende che stiamo studiando hanno un valore in termini di equity tra 300 e 700 milioni. Col nostro ingresso possono arrivare fino a un miliardo”, ha spiegato l’amministratore delegato di Dea Capital e di IdeaMi, Paolo Ceretti, a margine della cerimonia di quotazione della Spac a Milano. Il manager ha poi precisato che punta a realizzare “un’unica operazione, contiamo di avere tempi stretti, di un anno circa. Abbiamo già fatto una preselezione di 600 società e di queste, tenendo conto della struttura dell’azionariato, del debito, della redditività e competitività, abbiamo fatto un’ulteriore scrematura di circa 120 aziende”.

Nei prossimi giorni IdeaMi procederà ad un’ulteriore scrematura, per poi decidere quale sarà l’azienda target, senza che al momento vi sia “un settore in particolare al quale guardiamo”. L’idea di ricorrere a Spac e club deal per investire in Pmi italiane è come detto sempre più frequente negli ambienti finanziari italiani e sta affiancandosi al “classico” fondo chiuso.

Fino a pochi anni fa chi intendeva operare in questo ambito costituiva un fondo, come Investindustrial di Andrea Bonomi, protagonista di storiche operazioni come su Ducati e che entro la fine dell’anno potrebbe salire al 50% di Aston Martin dal 37,5% che già possiede, o la stessa IDeA dei Boroli-Drago, che ormai controlla una decina di fondi private (con IDeA Capital Funds) per non parlare della quarantina di fondi immobiliari gestiti tramite IDeA Fimit Sgr.

Oppure operava tramite holding famigliari come la Exor degli eredi Agnelli o la Delfin dei Del Vecchio attraverso le quali oltre a mantenere il controllo dei rispettivi “imperi” riusciva ad ampliare il perimetro d’investimento sia in ambito settoriale sia geografico. Ora sembra arrivato anche il momento dei piccoli e grandi intermediari, con la Mediobanca di Alberto Nagel alla ricerca di 50-60 grandi famiglie di imprenditori che siano disposte a sottoscrivere “gettoni” da 5 milioni o multipli attraverso accordi di club deal per entrare nel capitale di Pmi italiane pronte a fare il salto dimensionale.

In questo caso MB Private Banking punta a investire fino a 300 milioni lanciando una serie di veicoli finanziari, ciascuno dedicato all’acquisizione di una quota di maggioranza (di cui un 20% resterà in mano a Mediobanca) in singole aziende target. L’idea, rodata ormai da anni dall’operare di un banchiere d’affari del calibro di Giovanni Tamburi con la sua Tamburi Investment Partners e poi via via “copiata” da altri intermediari in tutta Italia, Sud compreso, è quella di coinvolgere chi ha capitali da mettere a rendita e chi ha attività che necessitano di maggiori finanziamenti per poter decollare ma non vuole o non può rivolgersi al tradizionale canale bancario per riuscirvi.

Finché i tassi resteranno ai livelli attuali e le banche saranno impegnate a completare la pulizia di bilancio e non potranno pertanto spingere troppo l’acceleratore, lo spazio a disposizione per far crescere il private equity anche in Italia e iniziare a rescindere il cordone ombelicale tra aziende e canale bancario sarà molto ampio e molto promettente in termini di rendimento prospettico.

Quando però i tassi torneranno a salire o le banche potranno e, presumibilmente, vorranno iniziare a giocare veramente la partita, è prevedibile che i margini di rendimento si ridurranno (a vantaggio, peraltro, degli investitori che vorranno aprire le porte del proprio capitale a investitori esterni, di qualunque natura siano).

Considerato che nel passato troppe volte marchi ed aziende storiche del “Made in Italy” sono finite prede di investitori esteri per l’assenza di disponibilità ad investire da parte del sistema italiano, il rinascimento in corso del private equity tricolore fa comunque sperare che possa tradursi non solo in una serie di ottime cessioni, ma anche in un vero rilancio di quella parte della nostra economia che da sempre è stata in grado di generare oltre i due terzi del Pil.