Economia
Rcs, Cairo e il sogno segreto del Sole. Ma con il Covid ha perso il tocco
In un video motivazionale fatto trapelare alla fine di marzo Urbano Cairo incoraggiava i suoi venditori a trovare nuove possibilità di business esordendo con un eloquente «mi sento come nel 1996». L’anno di nascita della Cairo Communication. Il motivo è che il Coronavirus ha dato una tale sferzata al business che oggi il reparto commerciale di qualsiasi azienda (e di qualsiasi industria) deve davvero inventarsi qualcosa di nuovo per tenere in piedi il fatturato. Sarà per questo motivo che la holding del presidente del Torino ha presentato conti in chiaroscuro. Da una parte, i principali indicatori sono tutti in flessione: i ricavi che passano da 911 a 697 milioni, l’Ebitda che scende da 119 a 36,2 milioni.
Ma soprattutto l’utile, che diventa negativo per 11,4 milioni. Dall’altro c’è l’indebitamento complessivo che scende nettamente grazie ai conti di Rcs. La quale, si legge nel comunicato della società, “ha continuato a generare flussi di cassa positivi con l’indebitamento finanziario che si riduce di euro 25,8 milioni rispetto a fine 2019 ed ha un conseguito un margine operativo lordo positivo di euro 30,1 milioni”. Anche La7 non si è mossa male, registrando una performance negativa per la raccolta pubblicitaria (in calo del 7,5% rispetto al -15,3% del comparto secondo Nielsen).
Dunque siamo di nuovo al 1996? In effetti le somiglianze non sembrano essere molto evidenti. Intanto perché a quel tempo il panorama economico era completamente diverso, le privatizzazioni scellerate non erano ancora state avviate, anche se le fosche nubi del “nocciolino duro” e delle altre operazioni che sarebbero partite di lì a poco iniziavano a farsi sentire.
Di più: l’aria di Mani Pulite iniziava a diradarsi e prendeva vita il primo governo Prodi. Non c’erano pandemie e neanche crisi economiche da fronteggiare. Da quel momento di acqua sotto i ponti ne è passata tantissima e il manager, già delfino di Silvio Berlusconi, è riuscito a entrare di forza e di astuzia nel salotto buono. Suo, infatti, il pacchetto azionario di maggioranza di Rcs, quella Rizzoli che vide due patti di sindacato tra il 1987 e il 2013. Il primo sotto l’orbita della Gemina di Cesare Romiti, il secondo controllato da Fiat.
Nel frattempo storie debitorie e di giochi di potere arcinoti, come l’esclusione di Della Valle dal patto numero due nonostante poco meno del 9% delle azioni. Alla fine la spunta Cairo, che ottiene il controllo con un’Opa che supera quella del finanziere Andrea Bonomi. Sua è diventata anche La7 (che nel 1996 si chiamava Telemontecarlo).
Insomma, Urbano Cairo in questi 24 anni ha saputo affermarsi come uomo di potere nonostante non avesse alle spalle né un retaggio familiare, né una liquidità berlusconiana, né un grande gruppo bancario o assicurativo. Mica male, per chi ha anche deciso di entrare nel variegato mondo del calcio nel 2005 rilevando il Torino che veniva da anni di gestione… creativa.
Anche in quel caso Urbanetto (come impietosamente lo chiama Dagospia) ha saputo ottenere risultati interessanti, anche se lontani dalle sue ambizioni. Sì, perché il presidente di Rcs non è sbarcato al Filadelfia per posizioni di rincalzo, ma per entrare (anche lì) nel gotha del calcio che conta. Prova che sia la recentissima battaglia ingaggiata tra lui e il presidente della Lazio Claudio Lotito, in cui Cairo si è schierato dalla parte delle squadre più blasonate quando si è trattato di dare il via libera all’ingresso dei fondi nella Lega di A.
Il bilancio del Toro nel 2019 era in perdita per 13,9 milioni, in lieve peggioramento rispetto ai 12,3 del 2018. E chissà che effetti avrà prodotto il Coronavirus, con le partite a porte chiuse e l’impossibilità di sfruttare merchandising e altre entrate. A Cairo, poi, i tifosi imputano di avere il “braccino un po’ corto” e di aver avallato operazioni scriteriate. Un’accusa che ha qualche fondamento di verità, perché se è vero che dal 2013 la società paga mezzo milione di euro di affitto per lo stadio “Grande Torino”, lo è altrettanto che non sembra all’ordine del giorno un investimento di circa 30 milioni per ottenerne la proprietà. E, men che meno, sembra essere di attualità la costruzione ex novo di un altro impianto.
Ma a Cairo riescono bene due cose: tagliare i costi in modo notevole (tutti nelle redazioni di Gazzetta e Corriere sanno che al moltiplicarsi degli inserti per aumentare il bacino pubblicitario non corrisponde analogo incremento degli organici) e avere la caparbietà per entrare ulteriormente nel salotto buono. Dopo la fusione tra La Stampa e Repubblica e l’acquisto del pacchetto di maggioranza dalla famiglia Elkann, Cairo si è messo in testa di portare avanti un’altra fusione clamorosa, quella tra Sole e Corriere.
«Rcs è disponibile a essere calamita per altri giornali – ha dichiarato in una recente intervista all’organo di Confindustria - che vorranno il nostro aiuto. Con Rcs abbiamo dimostrato che siamo in grado di saper risanare le aziende editoriali. Da zero abbiamo costruito la Cairo Editore che è diventato il primo publisher in Italia per vendite in edicola di periodici».
Per il momento il suo appetito è stato messo a tacere da Carlo Bonomi, che appena insediatosi al vertice di Confindustria, nell’anno più difficile dal Dopoguerra in poi, non può certo permettersi di cedere l’argenteria. Ma sarà così per sempre? Mai dubitare dell’ambizione di Cairo.