Economia
Rider, modello Germania per Foodora&C: salario minimo e assicurazioni
I lavoratori delle piattaforme distributive vorrebbero un salario minimo e tutele che sono già previste in altri paesi europei. I nodi che restano
In un paese dove il Pil resta al di sotto dei livelli pre-crisi del 2008 (con un distacco crescente dal resto dell’eurozona, il cui Pil è aumentato del 2,5% su base annua nel primo trimestre dell’anno, contro il +0,7% messo a segno dal Pil italiano) e dove il mercato del lavoro resta fragile, con un aumento degli occupati riconducibile unicamente ai lavoratori dipendenti a termine (+385 mila nel primo trimestre dell’anno) a fronte di ulteriori cali dei lavoratori a tempo indeterminato e degli indipendenti, come segnalato dall’Istat, la polemica attorno ai “lavoretti” della “gig economy” e al presunto sfruttamento di coloro che sono chiamati a svolgerli covava da tempo.
Ora la denuncia da parte dei riders Foodora secondo cui l’azienda porta avanti “ricatti occupazionali” quando sostiene “che non è possibile riconoscere la subordinazione in questo lavoro perchè non c’è sufficiente margine di guadagno”, nonostente che, sostengono i riders, “in Germania la stessa Foodora riconosce i contratti di subordinazione, garantendo ai propri lavoratori diritti e salari più alti di quelli che nel nostro paese” ha fatto deflagrare la polemica.
“Perchè questo non sarebbe possibile in Italia?” sostengono i riders, “non si tratta forse dello stesso lavoro?” Per questo secondo i riders il ministro Luigi Di Maio dorebbe “pretendere il rispetto dell’articolo 41 della Costituzione”, secondo cui l’iniziativa economia privata è libera, ma “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Di Maio in verità sembrerebbe intenzionato ad andare anche oltre.
Secondo una bozza pubblicata dal Sole24Ore del cosidetto “decreto dignità”, il governo vorrebbe considerare lavoratore subordinato “chiunque si obblighi, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, alle dipendenze e secondo le direttive, almeno di massima e anche se fornite a mezzo di applicazioni informatiche, dell’imprenditore, pure nei casi nei quali non vi sia la predeterminazione di un orario di lavoro e il prestatore sia libero di accettare la singola prestazione richiesta”.
Ma quanto pagano le piattaforme sotto accusa in Italia negli altri paesi europei, come la Germania? Deliveroo, piattaforma di consegne concorrente di Just Eat e Foodora, lascia la libertà al lavoratore se essere assunto come freelance o in base a un contratto part-time. Nel primo caso non paga alcuna assicurazione sanitaria, nel secondo caso, in cambio di orari di lavoro più rigidi, paga la copertura e offre un salario minimo (di 7,5 euro l’ora) e la possibilità di affittare la bicicletta da Deliveroo stessa per chi non disponesse di un mezzo proprio. La stessa Deliveroo in Italia offre mediamente 6 euro vuoi sulla base di un contratto “a cottimo” in base al numero di consegne e alla distanza delle stesse, vuoi sulla base di un fisso a consegna (di solito 4 euro) più una percentuale.
Distinguere tra lavori temporanei, per i quali semmai prevedere un’assicurazione obbligatoria e tutele in linea con quelle previste in altri paesi europei, e l’abuso di tali forme contrattuali sarebbe già un primo passo per scoraggiare i “furbi” e premiare le società e i lavoratori in regola, riequilibrando al tempo stesso i rapporti di forza tra aziende e lavoratori. Importante sarebbe tuttavia non adottare un approccio luddista nell’affrontare le sfide poste dalle trasformazioni che la tecnologia ha portato nel mondo del lavoro, cercando di ricondurre forzatamente i rapporti di lavoro nell’alveo dello schema classico, fortemente “ingessato”, di stampo novecentesco. In questo caso, infatti, si rischierebbe di favorire di fatto il lavoro nero o di indure le aziende a rinunciare a svolgere attività a bassissimo valore aggiunto.
Una strada alternativa potrebbe essere favorire la contrattazione tra aziende e lavoratori come in Belgio, dove una cooperativa di lavoro, Smart, nel frattempo sbarcata anche in Italia, ha negoziato con Deliveroo e Take it Easy un orario di lavoro minimo di 3 ore al giorno, incassandolo e girandolo ai riders insieme ad alcune tutele (malattia, disoccupazione, maternità e contributi previdenziali) e trattenendo in cambio una piccola percentuale della paga. Nella patria delle mille sigle sindacali si potrebbe guardare anche all’esempio danese, in cui è stata una piattaforma, Hilfr, che mette in contatto proprietari di casa e addetti alle pulizie, a siglare un accordo col sindacato nazionale 3F in base al quale tutti i lavoratri (450) che forniscono servizi al circuito di Hilfr si sono visti garantire una serie di tutele “di base” come ferie pagate, permessi e contributi previdenziali.
Hilfr ha accettato anche di pagare un “salario minimo”, come chiedono anche i riders italiani, di circa 19 euro l’ora, pari a 4 o 5 volte i compensi medi orari riconosciuti dalle altre principali piattaforme danesi e più che doppi rispetto ai livelli salariali minimi tedeschi. Questa differenza di retribuzioni a livello assoluto dovrebbe anche far capire che non è possibile pensare di portare i compensi dei lavoratori autonomi o para-subordinati ad un unico livello “europeo” automaticamente e senza contropartita.
Perchè? Perchè le retribuzioni non possono che essere legate alla crescita economica (e non ad altre forme di indicizzazione automatica, come dovettero accettare gli stessi sindacati nel 1992 con la soppressione della “scala mobile”), pena la perdita di competitività delle imprese e, a medio-lungo termine, il rischio di una loro chiusura. Ma per essere legate alla crescita, le retribuzioni debbono essere legate in tutto o in parte alla produttività e per l’Italia il confronto con gli altri paesi europei è da anni sconfortante sotto questo profilo.
Secondo i numeri di Banca d’Italia, ad esempio, solo dal 1995 al 2016 la produttività in Germania è cresciuta di 1,3 volte, pari a circa il 2% all’anno, mentre in Italia di 1,1 volte, ossia lo 0,3% medio annuo. Non solo: nel settore dei servizi (a cui appartengono aziende come Deliveroo e il loro lavoratori) nello stesso arco di tempo la produttività in Italia si è ridotta, mentre è aumentata in Germania, Francia e, dopo la crisi del 2008, anche in Spagna (che ha finito così col superare l’Italia, rimasta ultima).
Ben vengano dunque regole comuni e tutele minime, ma se non si riuscirà a favorire un recupero di produttività e redditività per le aziende italiane, anche favorendo investimenti in ricerca e sviluppo, tutti i lavoratori italiani, non solo quelli della “gig economy”, rischiano di vedere le proprie retribuzioni continuare a restare indietro rispetto a quelle pagate, per gli stessi lavori, in altri paesi europei.
Luca Spoldi