Economia
Sprechi? Fanno più male dell’evasione. Pa, rifiuti, cibo e mascherine...
Lo spreco dalla pubblica amministrazione al mondo alimentare, fino ad arrivare allo smaltimento delle mascherine. E pesa di più dell’evasione.
Tutti, nel proprio piccolo, possono fare la loro parte. Soprattutto quando si parla di vivere comune, sprechi e debito pubblico. Se da un lato è vero che l’evasione pesa in modo massiccio sull’intero sistema nazionale, lo è altrettanto che esistono tante tipologie di inefficienze, soprattutto legate alla pubblica amministrazione, ma non solo, generatrici di sprechi e malesseri collettivi.
Gli sprechi della Pa pesano più dell’evasione fiscale
200 miliardi di euro l’anno: è questo l’ammontare totale degli sprechi in Italia nel settore della pubblica amministrazione. Secondo uno studio condotto dalla Cgia di Mestre l’inefficienza e la disorganizzazione della Pa contribuiscono a creare un costo sociale di 90 miliardi in più rispetto all’evasione. Eppure, molti cittadini ritengono che sia proprio evadere le tasse il tallone d’Achille del sistema italiano, che genera “solo” in realtà una parte di spreco (circa 110 miliardi).
Le principali aree di malfunzionamento, riportate nello studio, sono quattro: la burocrazia, i debiti della Pa verso i fornitori, il trasporto pubblico locale e la corruzione. Nel dettaglia si riscontra che l’eccessiva burocrazia è ciò che arreca il maggior danno economico alle famiglie e alle imprese. I processi lunghi e farraginosi portano a un costo annuo di 57 miliardi di euro e rappresentano la principale criticità della Pa italiana. Il secondo posto è occupato dai debiti della Pa verso i fornitori, superiori ai 50 miliardi.
Seguono poi le problematiche di tipo logistico e legate alle infrastrutture, che pesano per 40 miliardi, a cui si aggiungono costi maggiorati di 12,5 miliardi nel trasporto pubblico locale. Un’ulteriore piaga del sistema pubblico italiano è rappresentata dalla corruzione, che solo nel sistema sanitario causa danni per oltre 23 miliardi. Un ultimo aspetto critico sui servizi è legato alla giustizia civile, il cui funzionamento efficiente al livello di quella tedesca porterebbe a beneficiare al Pil italiano per 40 miliardi all’anno. Secondo lo studio due sono le chiavi per rilanciare il Paese, minimizzando gli sprechi: rimodernare la pubblica amministrazione e promuovere una più efficace lotta all’evasione.
Sprechi: come sono cambiati i consumi alimentari
Tra le tante conseguenze della pandemia c’è anche un effetto collaterale positivo. Il diffondersi del virus Covid-19 è stata infatti, una possibilità per adottare un nuovo modello di consumo, come quello legato al cibo. In questi mesi segnati dal coronavirus più di un italiano su due (54%) ha diminuito o annullato gli sprechi alimentari adottando strategie che vanno dal ritorno in cucina degli avanzi a una maggiore attenzione alla data di scadenza, fino alla spesa a chilometri zero dal campo alla tavola, con prodotti più freschi che durano di più. Questi dati emergono da un’indagine Coldiretti/Ixe’ diffusa in occasione della prima Giornata internazionale della Consapevolezza sugli Sprechi e le Perdite Alimentari. Nonostante la situazione abbia portato diverse tipologie di ansie, paure e frustrazioni, i dati sul piano della riduzione dello spreco alimentare risultano positivi e incoraggianti.
Nelle case degli italiani, tra lockdown e smart working, è emersa una maggiore consapevolezza sul valore del cibo. Il risparmio del cibo non è solo un problema etico ma determina anche – come precisa Coldiretti – effetti sul piano economico e ambientale per l’impatto negativo sul dispendio energetico e sullo smaltimento dei rifiuti. In totale lo spreco alimentare nelle case degli italiani ammonta comunque a circa 36 kg all’anno pro capite e cresce quando le temperature rendono più difficile la conservazione dei cibi. Tra gli alimenti più colpiti svettano infatti verdura e frutta fresca, seguite da pane fresco, cipolle e aglio, latte e yogurt, formaggi, salse e sughi.
Sprechi: si aggiungono anche quelli delle mascherine
Ma il Covid è diventato anche un ulteriore occasione di sprechi, in questo caso legato alle mascherine. ll 7 ottobre, il Consiglio dei Ministri ha approvato, su proposta del Presidente Giuseppe Conte e del Ministro della salute Roberto Speranza, il Decreto-legge Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19e per la continuità operativa del sistema di allerta Covid, nonché per l’attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, che reintroduce l’obbligo di mascherina. Queste devono essere indossate, non solo nei luoghi chiusi accessibili al pubblico, ma più in generale nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e anche in tutti i luoghi all’aperto.
A eccezione di quei luoghi o circostanze nelle quali sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi. Restano esclusi dall’obbligo anche i bambini di età inferiore ai sei anni, le persone con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina, mentre nelle comunità possono essere utilizzate mascherine monouso o mascherine lavabili, anche auto-prodotte, in materiali multistrato idonei a fornire copertura, comfort e respirabilità, in modo di riuscire a coprire dal mento al di sopra del naso.
Da poche settimane a questa parte l’utilizzo della mascherina ritorna ad essere quindi fondamentale. Ma cosa succede se non viene svolto in maniera razionale? Se a questo non segue una buona pratica di sensibilizzazione e smaltimento? Mettendo a fuoco il contesto scolastico, tutti gli studenti, l’intero corpo docente e la totalità del personale non docente devono indossare una mascherina chirurgica nuova ogni giorno. La distribuzione, come più volte ricordato dal responsabile di governo Arcuri, “Avverrà su base gratuita sia per gli studenti che per il personale scolastico: non lascerà indietro nessuno. Su base settimanale o bisettimanale in funzione della dimensione del numero degli studenti, ognuno riceverà il proprio dispositivo”.
Ma riguardo alla tipologia dei dispositivi pervenuti, diverse polemiche sui non sono tardate ad arrivare, scrive un utente: “Gli elastici non sono posizionabili dietro alle orecchie, ma debbono passare dietro la testa, cosa impossibile per le donne, a meno che abbiano capelli cortissimi, perché scivolano giù. Inoltre, non hanno l’anima in metallo per sagomarle sul naso, quindi non aderiscono e sono impossibili da usare con gli occhiali”. E naturalmente alla scarsa efficacia corrisponde un ingente spreco di dispositivi mai utilizzati, né da bambini e né dai docenti: “I bambini non riescono a metterle sono scomode e strette. La maggior parte usa le chirurgiche da casa”, o scrive un altro utente: “Sembrano fatte con la carta igienica. Neanch’io voglio fare la parte di quella che si lamenta di tutto, ma sinceramente come DPI sono imbarazzanti. Io non ho ritirato il mio pacchetto previsto per gli insegnanti. Uso le mie mascherine personali”.
Secondo i dati Ispra il fabbisogno giornaliero totale di dispositivi sanitari è di circa 40 milioni di pezzi. Il grande interrogativo legato a questi numeri è: dove finiscono? Come raccomandato dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) devono seguire i canali degli altri rifiuti indifferenziati. A essere privilegiato è l’incenerimento e, quando ciò non è possibile, meglio procedere col conferimento in impianti di trattamento o in discarica, cercando sempre di evitare contatti con gli altri rifiuti. Il problema è quindi legato alla gestione ambientale: si tratta di potenziali risorse che dovrebbero per quanto possibile tornare in circolo, ma in questo momento, secondo quanto riportato dagli addetti ai lavori, i tempi per arrivare a una soluzione praticabile a livello industriale sembrano lontani. Il timore di molti tecnici, come riporta il Corriere della Sera “è il forte ritorno del monouso legato alla necessità di garantire l’igiene di molti; soprattutto dopo tutto il lavoro che si è fatto sull’abbandono dell’usa e getta e per combattere il littering (abbandono dei rifiuti) in mare”. L’unica pratica sulla quale è invece possibile lavorare, a livello individuale, è l’educazione civile collettiva.