Economia

Web Tax, la vera storia. Norma snaturata dalla Camera

Massimo Mucchetti

Web Tax, ecco la verità

La Camera dei deputati ha snaturato la norma approvata all’unanimità dal Senato. E l’ha fatto con il parere favorevole del Governo che in questo ha dimostrato una schizofrenia sorprendente ove si considerino le dichiarazioni ultime del premier e del ministro dell’Economia, meno sorprendente ove si consideri la storia di questa legislatura nella quale i governi, fino a tre mesi fa, avevano sempre cercato di ostacolare iniziative parlamentari efficaci.
Non può essere infatti considerata una iniziativa efficace la cosiddetta web tax transitoria inserita dalla Camera nella manovrina estiva che, come ormai è chiaro, si è ridotta a un condono, e nemmeno utilizzato dalle multinazionali digitali.

La Camera ha eliminato qualsiasi ruolo di monitoraggio e intervento dell’Agenzia delle entrate ai fini del contrasto dell’elusione fiscale da parte delle Over the top. Ha indebolito l’aggiornamento del concetto di stabile organizzazione ristabilendo la qualificazione di “risorse naturali” alle risorse che le imprese non residenti possono estrarre dal Paese con la stabile organizzazione.
Noi avevamo modificato quella qualificazione togliendo quell’aggettivo e sostituendolo con un onnicomprensivo “di qualsiasi natura” nella consapevolezza che oggi sono i dati, risorsa tipicamente immateriale, a costituire il nuovo petrolio, come va scrivendo l’Economist.
La Camera ha poi dimezzato l’aliquota della web tax sui ricavi riducendola dal 6 al 3% e, al tempo stesso, ha cancellato il connesso credito d’imposta di pari importo che il Senato aveva attribuito alle imprese web italiane e alle stabili organizzazioni delle multinazionali digitali.

Quel credito, detraibile dall’Ires, dall’Irap, dalle ritenute fiscali sui compensi a terzi, dai contributi previdenziali e assicurativi, avrebbe di fatto azzerato l’onere della web tax per le imprese, di proprietà nazionale o estera, che già sopportano imposte in Italia.
L’avrebbero invece pagata, la web tax, i soggetti non residenti che a suo tempo definimmo i furbetti di Dublino, luogo da dove, con ruling fiscali di comodo, fatturano i ricavi estratti nel nostro Paese. Non tragga in inganno l’osservazione di quanti ritengono inutile il tributo perché Facebook e altre Over the top sarebbero intenzionate a varare una stabile organizzazione in Italia, e dunque a pagare le imposte normalmente. Costoro non sanno fare i conti.

Facebook ha chiarito che in Italia pagherebbe – e non è chiaro se sui ricavi o sui profitti, ove ne dichiari – in ragione del lavoro fatto dalla sua filiale italiana. Che ha 22 dipendenti, non 2200. È dunque possiamo immaginare quale fatturato generino questo 22 addetti.
Non a caso il Senato aveva fissato un’aliquota sui ricavi che avrebbe generato un flusso analogo a quello di un’Ires proporzionata alla quota nazionale del conto economico consolidato. Per capirci, se Google, tanto per fare un nome, fattura 2 miliardi, con la web tax del Senato avrebbe dovuto pagare 120 milioni meno gli oneri fiscali e contributivi che, oggi, sono pochissima cosa. Applicando l’Ires a un ipotetico utile italiano proporzionato al reale giro d’affari realizzato nel nostro Paese avremmo una cifra di poco superiore.
La norma del Senato, in sostanza, costruiva una tenaglia tra norme sulla stabile organizzazione e norme sulla web tax, una tenaglia che avrebbe dato un gettito fiscale per così dire garantito. Ora non è più così.
Con la norma della Camera, Google pagherebbe 60 milioni, ma il condizionale è d’obbligo perché nessuna amministrazione finanziaria dello Stato è chiamata a verificare i flussi finanziari in uscita dall’Italia verso Google Ireland.
La Camera lascia a Google il compito di segnare l’imposta sulla documentazione contabile e di versarla all’Erario ovvero, se Google non procede, la Camera assegna ai clienti italiani di Google la funzione di sostituto d’imposta, con le relative incombenze e sanzioni in caso di negligenza o di errori.
Il Senato aveva attribuito agli intermediari finanziari che effettuano i pagamenti il ruolo di sostituti di imposta. Le iniziali remore dell’Abi erano state presto superata dall’ovvio chiarimento sul fatto che questo nuovo compito sarebbe stato equamente remunerato sulla base dei costi sostenuti dagli intermediari.
La Camera non solo ha diminuito l’aliquota, ma ha anche tolto il credito d’imposta. In tal modo si infligge un’ingiusta e grave punizione alle imprese web italiane, che sono tra le punte dell’innovazione nel nostro Paese. Basti un piccolo esempio.

Un’impresa web italiana che fatturi 100 e dichiari, perché ha successo, un utile ante imposte di 10, oggi paga 2,4 di Ires ma domani pagherà 2,4 più 3, tale essendo l’imposta sui ricavi priva del credito d’imposta. L’Ires di fatto salirebbe dal 24% al 54%. Un appesantimento che sarebbe ancor più marcato nel caso l’utile imponibile fosse più ridotto di quello che abbiamo posto a esempio.
E’ a questo punto che arriva il miracolo o, per meglio dire, la beffa. La Camera sostiene che, dimezzando l’aliquota, il gettito atteso sale dai 114 milioni stimati dalla relazione tecnica presentata dal governo al Senato ai 190 milioni della relazione tecnica presentata alla Camera. Incredibile. Se non pensando a una manipolazione del reale.
Che purtroppo c’è stata e funziona così: prima, al Senato, il governo prende come base di calcolo del gettito atteso la raccolta pubblicitaria on line stimata dall’Agcom in 1,9 miliardi annui, poi, considerando che il rapporto Assinform dà conto anche di altre attività digitali teoricamente imponibili, moltiplica per due gli 1,9 miliardi e arriva a 3,8 miliardi. A questa cifra applica il 6% e arriva a un gettito di 228 milioni che infine viene dimezzato in considerazione dell’effetto del credito d’imposta concesso alle imprese web italiane.
Che cosa fa il governo alla Camera? Per la Camera il governo scopre che le attività digitali sono in crescita e dunque gonfia dell’8% all’anno la base imponibile e poi la moltiplica per tre, moltiplica per tre ciò che tre settimane prima aveva moltiplicato per due. Non tragga in inganno la citazione del Cloud computing, della Data Analisys et similia. Fanno sempre parte dello stesso rapporto Assinform.
Non è che citando per nome queste attività cambia qualcosa. Anche perché la scelta delle attività imponibili resta sempre demandata a un decreto ministeriale. In tal modo, per effetto di questi che mi duole chiamare giochetti, ma è il loro nome, la base imponibile teorica sale da 3,8 a 6,3 miliardi ed ecco il miracolo: anche dimezzando l’aliquota, il gettito atteso sale.
Ceteris paribus, anche per il Senato il governo avrebbe dovuto stimare lo stesso gettito. Se avesse avuto un ripensamento analitico, sempre possibile, il governo avrebbe dovuto sentire il dovere intellettuale, se non politico, di chiarire il punto alla Camera senza far balenare un incremento di gettito che non esiste. In tal modo, con questa trasparenza, sarebbe emersa la diversità qualitativa e politica dell’impostazione del Senato e di quella che era allora solo una proposta fatta alla Camera.
Non è stato fatto. Si è giocato sull’equivoco. Un equivoco che non sarà privo di rischi per i conti pubblici. E qui arriviamo al punto finale. I 190 milioni della web tax sono già stati allegramente impegnati. Ma – e lo dico oggi a futura memoria – questi 190 milioni non verranno incassati, almeno non tutti, dall’Agenzia delle entrate. Non solo perché alle multinazionali si lascia la carta bianca che già hanno oggi, e che finora hanno usato per eludere e non per pagare, ma anche perché la giusta rivolta delle imprese web italiane indurrà il ministero dell’Economia a non varare entro il 30 aprile, magari con la scusa delle elezioni politiche di marzo, il decreto con il quale, secondo la legge di bilancio, vanno individuati i settori ai quali concretamente applicare la web tax. E la web tax svanirà.
In conclusione, mi siano consentiti ringraziamenti non formali, e quando dico non formali non ripeto una formula rituale.
Desidero anzitutto ringraziare il presidente del Senato, Piero Grasso, che ha scelto di affidare il mio ddl sulle misure fiscali per l’economia digitale, dal quale è infine scaturito l’emendamento alla legge di bilancio approvato dal Senato, all’esame congiunto delle commissioni Finanze e Industria ben comprendendo come l’elusione fiscale non danneggi soltanto l’Erario, ma anche il corretto svolgersi della concorrenza. È stata una decisione non scontata, ove si consideri che il governo aveva fermato un’analoga iniziativa contro l’elusione fiscale delle Over the top che avevo proposto al ddl per la Concorrenza.
Altri doverosi ringraziamenti vanno al presidente della commissione Finanze, Mauro Maria Marino, che ha accettato e cogestito l’esame del ddl.
Ultimi ma non ultimi, i relatori, Gianluca Susta e Luigi Marino, che hanno resistito al tentativo del governo di affondare il ddl prim’ancora che se ne iniziasse l’esame distribuendo un parere dell’Agenzia delle entrate non ancora richiesto dal Senato, un parere invero assai debole nel merito e non molto educato nel tono. Ai relatori va riconosciuto il coraggio di aver preso in considerazione le controdeduzioni che prontamente erano state opposte dal presentatore a quel parere è così facendo hanno posto le premesse, con il successivo, paziente lavoro di ascolto degli stakeholder avvenuto nel corso di numerose audizioni, per costruire le basi della decisione del Senato, alla quale ha anche largamente contribuito il ministero dell’Economia, una volta maturata la svolta dei governi di Italia, Francia, Germania e Spagna sulla materia.
Ma, come abbiamo visto, la decisione del Senato e’ stata purtroppo snaturata dall’insipiente decisione della Camera e, diciamo così, dall’errato, deludente parere favorevole dato in extremis dallo stesso governo.