Esteri
Ecco perché gli Usa soffiano sul fuoco di una guerra in Medio Oriente
Washington affida ad Israele il lavoro sporco di tenere alta la tensione in Medio Oriente. Se la regione resta instabile, questo il ragionamento, nemmeno la Cina potrà avvantaggiarsene
Ecco perché gli Usa soffiano sul fuoco di una guerra in Medio Oriente
Israele attacca in Libano e Washington dà sostanzialmente semaforo verde. Le parole degli esponenti della Casa Bianca e del Pentagono durante i giorni dell’escalation degli attacchi di Tel Aviv contro Hezbollah, culminati nei raid terrestri di ieri, mostrano una malcelata approvazione coperta di “avvertimenti” di vario tipo. Per Benjamin Netanyahu la guerra d’Israele è una sola, dalla Striscia di Gaza al Libano, dalla Siria allo Yemen. Per Joe Biden e gli Usa i fronti sono plurimi, e impegnarsi per il cessate il fuoco a Gaza non impedisce di guardare i vantaggi strategici su altri teatri. Quale è quello del Libano o, per esempio, del Mar Rosso.
Washington affida ad Israele il lavoro sporco
La sensazione dominante a Washington è che Israele stia facendo agli Usa il lavoro sporco di alzare la soglia di contenimento del principale rivale regionale, l’Iran, che alla vigilia del 7 ottobre 2023 si presentava, prima che Hamas incendiasse la regione, in una posizione geopolitica tutt’altro che fragile nel Medio Oriente: riappacificato con l’Arabia Saudita, in rapporti con l’Asse della Resistenza sciita, attivo nel partenariato con Russia e Cina per plasmare un ordine economico e strategico in campo asiatico. Un colpo duro all’ambizione statunitense di contenere Teheran e, tramite esso, la penetrazione di Mosca e Pechino nella regione.
Un Medio Oriente parcellizzato è meglio di un Medio Oriente pacificato
Per Washington, sostanzialmente, un Medio Oriente parcellizzato è meglio di un Medio Oriente pacificato ma aperto a penetrazioni ostili. Da cui si potrebbe minacciare la tenuta del sistema geopolitico a guida americana, che si fonda sul controllo degli stretti, delle rotte marittime e dei conseguenti commerci nelle aree costiere dell’Eurasia, il cosiddetto Rimland. Per gli Stati Uniti, dunque, un’Israele che colpisce Hezbollah, esercita la deterrenza contro gli Houthi nel Mar Rosso e, nel frattempo, pressa la Siria di Bashar al-Assad primo alleato della Russia nella regione è un alleato che a questo lavoro sporco aggiunge il contributo strategico di respingere all’indietro la postura di Teheran verso il Mediterraneo.
Gli Usa vogliono evitare l'ascesa cinese in Medio Oriente
Rendere il Medio Oriente diviso e caotico, in uno stato di conflittualità permanente nei teatri critici, perché dopo aver perso la prospettiva di conquistarlo gli Usa hanno il primario vincolo di evitarvi l’insediamento di una potenza ostile. Quella potenza ostile tanto temuta è la Cina, e la proiezione iraniana viene, in una semplificazione spesso esagerata da parte degli strateghi di Washington, vista come il proxy del suo inserimento nella regione. A cui, peraltro, Netanyahu ha alluso nel suo discorso alle Nazioni Unite mostrando mappe che indicavano la (ad oggi irrealizzata e remota) “Via del Cotone” che potrebbe unire India, Penisola Arabica, Israele e Europa.
La dottrina Wolfowitz
Insomma, Israele è l’agente del moderno dispiegamento della “dottrina Wolfowitz” teorizzata da Paul Wolfowitz, vicesegretario alla Difesa nell’amministrazione di George W. Bush. Il sunto di Wolfowitz era semplice: interdire ad ogni potenza rivale la possibilità di sfidare l’egemonia Usa in ogni teatro globale. Chiave di questa strategia, a lungo, è stato il Medio Oriente. Contrariamente a una vulgata che individuava nelle risorse petrolifere il centro dell’interesse strategico Usa per la regione, esso non è diminuito anche dopo che Washington ha ottenuto l’autonomia energetica, per ragioni di deterrenza verso i rivali globali. In quest’ordine: Cina, Russia e Iran. Tutti interessati alla regione. E l’interesse di altri rivali, per sua natura, impone agli Usa di non allontanarsi dalla regione. Anche grazie all’asse con Israele.
Meglio frammentare un’area che perderla
Washington e Tel Aviv, ha commentato l’analista geopolitico e militare Amedeo Maddaluno, hanno un disegno strategico comune che, a sommi capi, in caso di minacce di controlli egemonici esterni “prevede che il Medio Oriente venga raso al suolo”. Dottrina Wolfowitz in purezza: meglio frammentare un’area che perderla. Ragiona Maddaluno sul suo profilo X: “Bush figlio provò a conquistare il Medio Oriente. Fallì. Visto che non si poteva conquistare, Obama provò a destabilizzarlo sostenendo le rivolte arabe. Fu controproducente: questo attirò russi, turchi e iraniani” con peso crescente. Donald Trump tentò l’alchimia degli Accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain per creare un asse anti-Teheran che, però, al di là di una fase iniziale di slancio non ha isolato gli attori esterni entrati nella regione.
Il ragionamento di Washington: "Ben venga che il Medio Oriente bruci"
Dunque, se “non si può conquistare, e non si può impedire che altri se lo piglino destabilizzandolo”, ragiona Maddaluno, il sunto americano è chiaro: “ben venga che la regione bruci”. Casi come quello di Gaza sono distinguo legati, soprattutto, a pressioni politiche interne ed elettorali. E la volontà americana di cercare la pace nella guerra Israele-Hamas è offuscata dalle recenti rivelazioni sui report ignorati dal Segretario di Stato Tony Blinken che parlano di rifiuti Usa di indagare sui blocchi agli aiuti umanitari destinati a Gaza nella scorsa primavera.
I cinesi non potrebbero mai avvantaggiarsi di un un Medio Oriente destabilizzato
Il sostegno incondizionato di Washington ai raid di Israele contro gli alleati dell’Iran nella regione, i continui passaggi di armi americane a Tel Aviv e la copertura diplomatica alimentano l’idea del “piano caos” come alternativa all’influenza di Paesi rivali. Maddaluno sintetizza che se il Medio Oriente sarà destabilizzato e in conflitto “i cinesi non potranno usarlo, i russi, i turchi, gli europei raccoglieranno i cocci, gli iraniani sanguineranno”. La proiezione di Israele, che nella sua battaglia contro i rivali regionali ragiona con impulsi tattici legati alle necessità di breve termine, fa in questo senso il gioco di Washington. Mentre il Medio Oriente resta sempre più oggetto e sempre meno soggetto delle dinamiche politiche internazionali.