Esteri

Gaza: cessate il fuoco raggiunto, ma la pace è ancora un miraggio lontano

Senza un riconoscimento del diritto all'autodeterminazione palestinese e l'abbandono della logica di sopraffazione, questo sarà solo un intervallo in una guerra senza fine

di Alessandra M. Filippi

Ecco perchè la tregua raggiunta tra Israele e Hamas non risolve le questioni fondamentali del conflitto

Dopo 467 giorni di guerra devastante, su Gaza si apre uno spiraglio di tregua. Ieri sera il primo ministro del Qatar ha annunciato il cessate il fuoco fra Israele e Hamas, un accordo che inizierà domenica 19 gennaio alle 12:15. “Il Qatar continuerà a lavorare con l’Egitto e gli Stati Uniti per garantire l’attuazione dell’accordo”, ha dichiarato durante una conferenza stampa che ha catalizzato l’attenzione globale.

L’accordo, frutto di mesi di trattative, si articola in tre fasi. La prima prevede il rilascio di 33 ostaggi in 42 giorni, con un piano graduale: tre ostaggi il primo giorno, quattro il quarto giorno, seguiti da quattro fasi che vedranno la liberazione di 12 ostaggi nei successivi 35 giorni. I rimanenti saranno rilasciati nell'ultima settimana. La seconda fase, che partirà dal sedicesimo giorno, prevede la liberazione di altri 65 ostaggi israeliani in cambio di 1300 prigionieri palestinesi. Parallelamente, Israele permetterà alla popolazione di Gaza di spostarsi dal sud al nord della Striscia, ritirandosi in una zona cuscinetto lungo il confine.

Ma il cessate il fuoco non è sinonimo di pace. Questo accordo è una pausa, non una soluzione. Dietro i sorrisi diplomatici si celano tensioni irrisolte e obiettivi falliti. Netanyahu, che aveva promesso di annientare Hamas e riannettere Gaza, si trova a fare i conti con la realtà: nessuno dei suoi obiettivi massimalisti è stato raggiunto. Il primo ministro israeliano appare sempre più isolato, pressato dai falchi della sua coalizione, come Smotrich e Ben-Gvir, e incalzato da una giustizia che non arretra. La tregua sembra più una manovra per guadagnare tempo che una vera vittoria diplomatica.

E poi c’è Donald Trump. Il cessate il fuoco, raggiunto pochi giorni prima del suo insediamento alla Casa Bianca, gli permette di rivendicare un ruolo decisivo. L’amministrazione americana, guidata dal suo inviato Steven Witkoff, ha esercitato una pressione determinante su Netanyahu per chiudere un accordo che riattivi gli Accordi di Abramo e riporti stabilità nella regione. Ma il prezzo pagato è incalcolabile: 47mila morti, tra cui 18mila bambini; 110mila feriti; 35mila minori rimasti orfani. Secondo Al Jazeera, 1600 famiglie sono state cancellate dai registri civili. Gaza è un cimitero a cielo aperto.

La devastazione è apocalittica: su 36 ospedali solo 17 funzionano parzialmente, 170mila strutture sono ridotte in macerie, incluse 136 scuole e 200 edifici governativi. Le infrastrutture vitali sono annientate: rete elettrica e idrica distrutte, strade impraticabili, i terreni agricoli — metà dei quali devastati — non producono più cibo. Secondo la FAO, il 95% del bestiame è morto. Gaza è un luogo invivibile, avvelenato dalle macerie e dalla contaminazione. Serviranno decenni per ripulire le 42 milioni di tonnellate di detriti, sempre che si trovi dove smaltirli. Ricostruire sarà una sfida molto più grande di quella affrontata dal Giappone dopo la bomba atomica.

Perchè a differenza di Hiroshima o Nagasaki, dove i sopravvissuti poterono sfollare temporaneamente, a Gaza non ci sono vie di fuga. Gli abitanti sono prigionieri, costretti a sopravvivere in un incubo senza fine. Ogni aspetto della vita è compromesso, dall’acqua potabile all’elettricità, serviranno decadi, per un recupero ambientale e infrastrutturale. Ma forse, è proprio questa la strategia sottesa: rendere Gaza così inabitabile da costringere i sopravvissuti a lasciare per sempre, spinti dalla disperazione. Non una fuga temporanea, ma un esodo forzato che completerebbe l’opera di sradicamento. 
Nel frattempo, mentre i negoziati si concludevano a Doha, Israele intensificava i bombardamenti. Secondo The New Arab, medici di MAP-Medical Aid for Palestinian hanno denunciato attacchi mirati a distruggere ogni residuo di infrastruttura. “È come se un appaltatore dicesse ai suoi operai di finire tutto in fretta. Una follia assoluta”, hanno dichiarato.

Un calvario a parte è rappresentato dalla Cisgiordania. Coloni fuori controllo, supportati dall’esercito, continuano la loro opera di morte e distruzione. L’annessione dei Territori occupati è ancora sul tavolo, una carta giocata con cinismo per ottenere concessioni. Smotrich e Ben-Gvir dissentono, ma non mollano: il loro obiettivo è troppo vicino per rinunciarvi ora.

L’odio seminato in questi mesi non svanirà con una firma. La riconciliazione richiede più di un cessate il fuoco: esige giustizia, riconoscimento dei crimini e una volontà politica che sembra lontana anni luce. La devastazione di Gaza e il trauma della sua popolazione si propagheranno come un eco per generazioni, alimentando un ciclo infinito di violenza.

La pace vera, quella che va oltre il silenzio delle armi, dunque resta ancora un miraggio. E richiede un cambio di paradigma: riconoscere il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione; va bene ricostruire le case ma è il tessuto sociale che richiede di essere riparato. Bisogna abbandonare la logica della sopraffazione. Senza questo, ogni tregua resterà solo una pausa tra un massacro e l’altro. Come ci ricorda Edward Said, "Ogni oppressione, qualunque ne sia l'origine, è condannata a essere smascherata, poiché il diritto alla narrazione è anche il diritto all'esistenza".

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