Esteri
Medio Oriente, le crepe di un ordine fragile: tra mire espansionistiche di Israele, devastazione e...
Le linee incandescenti della guerra in Medio Oriente
Guerra in Medio Oriente, le crepe di un ordine fragile. Tra mire espansionistiche di Israele devastazione e frammenti di un futuro incerto
Nel Vicino Oriente stiamo assistendo a cambiamenti devastanti, simili a sconvolgimenti sismici o "spostamenti tettonici" che riscrivono la geografia umana e geopolitica della regione. La Striscia di Gaza è pressoché rasa al suolo. Quel che resta dei suoi oltre due milioni di abitanti sopravvive in perpetuo stato di evacuazione, come animali braccati; che, del resto, è quel che molti israeliani pensano i palestinesi siano. Ogni giorno, come in un videogame, le forze militari israeliane, dotate di tecnologie belliche molto avanzate, spesso sperimentate per la prima volta, conducono attacchi letali.
A loro fianco gli alleati storici – USA ed Europa – che oltre a armi e fondi, forniscono impunità e legittimazione diplomatica, rendendosi complici di questo eccidio dai contorni genocidari. Le cifre sono spaventose: solo ieri, il Ministero della Sanità di Gaza ha riportato che il bilancio ufficiale dei morti ha superato i 45.000 – il 60% donne e bambini – mentre i feriti hanno raggiunto quasi 107.000. Tuttavia, secondo osservatori indipendenti e organizzazioni umanitarie, i numeri reali potrebbero essere molto più alti, in un contesto in cui molte vittime non vengono nemmeno registrate.
Nei Territori Occupati, fuori zona d’interesse della stampa mainstream, si sta consumando un’altra pulizia etnica. La violenza dei coloni è fuori controllo e i nativi palestinesi vivono in stato di assedio.Secondo la testata egiziana Mada Masr, sabato sera le forze di sicurezza dell'Autorità Nazionale Palestinese di stanza in un ospedale nel campo di Jenin hanno aperto il fuoco su una folla di oltre 100 palestinesi, ferendone almeno sei. Un giovane che vive nel campo ha detto a Mada Masr che "l'Autorità Nazionale Palestinese non vuole risolvere la crisi, solo sbarazzarsi della resistenza". Su tutto questo, pesano le parole del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, il quale ha preannunciato che, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, il 2025 sarà l’anno dell’“espansione della sovranità israeliana” sulla Cisgiordania.
In Libano, dove la fragile tregua di 60 giorni resiste, le forze israeliane si stanno ritirando lentamente, lasciando dietro di sé una scia di devastazione che ha cancellato interi borghi. A molti residenti è vietato tornare alle proprie case. Un post pubblicato il 29 novembre dal portavoce dell'esercito israeliano in lingua araba recitava: "L'IDF non ha intenzione di prendervi di mira e pertanto vi è proibito, per ora, tornare alle vostre case da questa linea a sud fino a nuovo avviso”. Non è chiaro se l’ordine sia ancora valido, ma l’“espulsione" forzata dei residenti sembra favorire il movimento israeliano Uri Tzafon, che promuove nuovi insediamenti nel Libano meridionale, spingendosi fino al fiume Litani, accompagnati da piantine e proposte di nomi da dare alle colonie che sostituiranno i villaggi distrutti. In uno dei box pubblicati in ebraico sul loro sito si legge: “Lo sapevate? Nell'insediamento di Tel Yaraon (ex Kfar Yarin) i lavori di evacuazione sono stati completati. Ora rimane solo la costruzione” (https://uritsafon.com/).
In Siria, la stampa mainstream tende a minimizzare la gravità degli eventi che hanno ridotto il Paese a uno spezzatino pronto per essere spartito fra Israele, Turchia e chissà chi altri. Ieri all’alba un attacco israeliano, il più devastante degli oltre 500 effettuati dallo scorso 8 dicembre, ha colpito Tartus. Le esplosioni, così violente da essere paragonate a una "Hiroshima", hanno causato scosse di magnitudo 3.0. Obiettivi principali: depositi di armi e unità di difesa. Ma le vittime sono state per lo più civili, aggravando il già martoriato bilancio umano della Siria. Nel frattempo, Benjamin Netanyahu ha ribadito che "Le Alture del Golan rimarranno per sempre parte integrante di Israele”. A ribadire il concetto ci ha pensato la Knesset che ieri ha approvato un piano di "sviluppo demografico" da 40 milioni di shekel (10 milioni di euro) per raddoppiare i coloni nel Golan, illegalmente annesso nel 1981. Oggi circa 31.000 coloni israeliani vivono nell’area, insieme a oltre 20.000 siriani, prevalentemente drusi, rimasti dopo l’occupazione israeliana.
La proposta di Israele ha suscitato dure critiche da parte del mondo arabo. Il ministero degli Esteri saudita l’ha definita un tentativo di “sabotare le opportunità di sicurezza e stabilità per la Siria”. Dal Qatar, che oggi riapre la sua ambasciata a Damasco dopo 13 anni, è giunta la condanna del piano come “un nuovo episodio di aggressione israeliana contro territori siriani, in palese violazione del diritto internazionale”. Questi sviluppi confermano le ambizioni israeliane verso il progetto della “Grande Israele”, ignorando risoluzioni ONU e l’accordo di disimpegno del 1974.
L'equilibrio regionale sembra oggi pendere a favore di Israele, tuttavia la situazione resta fluida. Nonostante le dichiarazioni trionfanti di Netanyahu, “autoproclamato maestro stratega”, il conflitto multimiliardario in corso da 437 giorni pesa non poco sul Paese. Secondo uno studio dell’ISPI, tre fattori principali stanno destabilizzando Israele: la continua mobilitazione di forza lavoro per lo sforzo bellico, il mutamento della percezione internazionale di Israele, e l’esodo di capitali e persone.
Le difficoltà economiche si fanno sentire anche tra i cittadini. Secondo la testata Al Mayadeen, due milioni di israeliani faticano a pagare tasse e bollette, mentre Moody's ha declassato il rating di credito sovrano di Israele da A2 a Baa1. A novembre l'agenzia ha mantenuto le sue prospettive negative avvertendo che “sono possibili ulteriori declassamenti”. Oltre ai rischi esterni, Moody's ha indicato, come fattori significativi che contribuiscono alle tensioni sociali e all'incertezza economica, le sfide politiche interne, tra cui le proposte di riforme giudiziarie e i tentativi di esentare gli israeliani ultra-ortodossi dal servizio militare.
Le sconquasso di Gaza e del Vicino Oriente sono una ferita aperta, monito inquietante del prezzo umano dell’espansionismo israeliano e della disonorevole complicità dell’Occidente. Come su un treno lanciato a 300 km orari, la visione d’insieme si perde: le luci si fondono in linee incandescenti, i contorni svaniscono, e l'incertezza domina il futuro. Ma quelle linee, ustionanti e dolorose, sono anche tracciati che il mondo non può ignorare. Sono il riflesso di vite spezzate, di storie di resistenza, di un’umanità che rifiuta di soccombere all’oblio. Riconoscere queste linee, seguirle, significa non arrendersi all’accecamento della distruzione di oggi, ma ritrovare la capacità di vedere, di ricostruire e immaginare un domani.