Esteri
Stati Uniti, dopo Capitol Hill un lento e inesorabile declino
I fatti del 6/1 resteranno una ferita profonda nella democrazia Usa: mentre ci si chiede cosa farà Trump, l’unica certezza è che Biden eredita un paese diviso
Il requiem della democrazia americana?
Nella relativamente breve storia americana non sono certamente mancati momenti drammatici. Basti pensare alla guerra civile o alle leggi Jim Crow, che hanno permesso fino a tempi relativamente recenti la segregazione razziale. Ma anche in fatto di presidenti, gli Stati Uniti non si sono fatti mancare nulla. Le dimissioni di Richard Nixon subito prima dell’impeachment sono note anche grazie al film Tutti gli uomini del Presidente, ma c’è stato ben di peggio: per esempio il presidente Andrew Jackson, succeduto a John Adams Quincy, a oggi unico presidente ad essersi rifiutato di prendere parte al giuramento del proprio successore. Jackson aprì la festa di inaugurazione a chiunque, con conseguente vandalizzazione della Casa Bianca ed egli stesso dovette essere tratto in salvo. Ma Jackson, che amava i duelli a fuoco ed è stato il presidente che maggiormente ha utilizzato il potere di veto, è tristemente ricordato soprattutto per il Trail of Tears, il sentiero delle lacrime, ovvero l’evizione forzata degli indiani dalle terre che coltivavano da secoli negli stati del Sud-Est.
Gli ottimisti quindi si affannano ad affermare che anche questa volta gli Stati Uniti usciranno dalla crisi più forti di prima. Stavolta tuttavia è diverso e il 6 gennaio 2021 verrà ricordato dagli storici come l’equivalente del 395, l’anno in cui venne suddiviso l’Impero Romano. Storicamente tutti gli imperi nascono, crescono, raggiungono un apice e declinano. Ma queste fasi sono sempre definite ex-post perché sono difficili da cogliere mentre le si vivono. Gli Stati Uniti hanno vissuto il loro periodo di apice tra la Seconda Guerra Mondiale e la caduta del Muro di Berlino. La temporanea scomparsa dell’avversario, l’auto-definizione di leader del mondo libero – seguita da un ventennio di guerre inutili e dannose – ne avevano già fortemente minato la credibilità internazionale.
Internamente quel ventennio ha dato la botta finale alla classe media, già colpita dalla rivoluzione fiscale reaganiana, soffocata dai debiti legati alle spese per istruzione e ai costi della sanità. Costi che hanno portato alla fine della prevenzione e alla diminuzione dell’aspettativa di vita (78,6 anni contro gli 82 della Francia nel 2017). I bianchi poveri, senza speranze né prospettive, hanno visto in Trump il salvatore e ne hanno sposato la retorica di fuoco. Il Covid-19, infine, ha aumentato le tensioni: la classe istruita, con professioni intellettuali e grandi case, ha avuto meno difficoltà ad adattarsi a 10 mesi di lockdown, mantenendo in buona parte il proprio impiego. Non è stato così per chi non ha un’istruzione formale e che, oltre alla perdita del lavoro, si trova a vivere in condizioni miserevoli. Non tutti i seguaci di Trump sono così ma quelli che lo sono, mentre il resto del mondo comprava mascherine, compravano armi e si preparavano alla guerra civile.
Una ferita difficile da rimarginare
Ma i sogni sono sempre gli ultimi a cui si rinuncia e così il mondo occidentale, Europa in testa, ha continuato a sperare che in fondo Trump non fosse così male e che comunque l’America sarebbe tornata a essere quella che era. Le immagini del Campidoglio assaltato e vandalizzato sono rimbalzate da schermo a schermo, da telefonino a telefonino. Le dichiarazioni di Trump hanno bruscamente svegliato il mondo occidentale, Europa in testa, che finalmente si è accorta di quale pazzo psicotico (non) abbia governato gli Stati Uniti negli ultimi quattro anni.
Negli Usa a Washington, una città al 97 per cento democratica, già pesantemente provata dal quadriennio di di presidenza Trump, l’assalto da parte di balordi mascherati e in tenuta antisommossa ha rappresentato una ferita difficile da rimarginare. Non che la violenza, come avevamo scritto, fosse del tutto inaspettata: già prima delle elezioni tutte le finestre al piano terra in downtown erano state coperte da pannelli protettivi. Ma un assalto al cuore della democrazia americana è un’altra cosa: vedere i deputati asserragliati, stesi per terra per evitare eventuali proiettili, con i mobili spostati a bloccare le porte, assistere in diretta a buffoni mascherati intenti a violare la sacralità dell’istituzione è stato un colpo mortale, una ferita che richiederà molto tempo per rimarginarsi. Per non parlare della comparazione tra la serrata di forze di polizia ed esercito in occasione delle manifestazioni pacifiche di Black Lives Matters e la non-resistenza del 6 gennaio. I leader della polizia capitolina sono già stati fatti dimissionare ma resta il punto interrogativo del perché ci sia stata così poca reazione iniziale, perché i rinforzi siano stati così lenti ad arrivare e così facile riuscire nell’assalto. Tante domande, poche risposte per ora.
Cosa dobbiamo attenderci ora
L’America è come sospesa in questo momento, la tensione è palpabile, l’incertezza sui 12 giorni che ci separano dal 20 gennaio è snervante. Che farà Trump? A quali altri criminali – incluso se stesso – concederà il perdono presidenziale? Andrà davvero in Florida il 19 gennaio, lasciando al vicepresidente Mike Pence il compito di presenziare all’inaugurazione? O piuttosto partirà in autoesilio in un paese amico senza trattati di estradizione (Israele? Arabia Saudita?). La Costituzione e la giurisprudenza sono silenti in quanto all’auto–perdono e quindi tutto è possibile, tanto più che dopo i recenti fatti le possibili incriminazioni si moltiplicano, aggiungendo alla frode fiscale la sedizione e anche il tradimento. Che faranno i suoi sostenitori in tal caso? E che faranno il 20 gennaio? O in caso di inizio della procedura di impeachment o invocazione del 25° emendamento? Dove scoppieranno nuove violenze?
La speaker della Camera Nancy Pelosi (terza personalità istituzionale secondo la Costituzione americana e una dei leader democratici più scettici nel passato rispetto a questa possibilità) ha pubblicamente chiesto che Trump venga rimosso. L’impeachment potrebbe essere in effetti avviato dal Congresso ma mancano sia i numeri sia i tempi. Ci devono essere una messa in stato di accusa formale, la formazione di un comitato d’inquisizione, la formulazione di specifici articoli di impeachment sui quali votare uno per uno alla Camera, prima di ricominciare l’iter al Senato sotto la presidenza del chief justice John Roberts e dove la maggioranza – fino al 20 gennaio – è nelle mani del repubblicano Mitch McConnell e quindi difficilmente si troverebbe la maggioranza dei due terzi richiesta dalla Costituzione. Iniziare la procedura di impeachment sarebbe quindi solo un atto simbolico, che rischierebbe di esasperare ancora di più gli animi dei supporters di Trump.
Il 25° emendamento – aggiunto alla Costituzione in seguito alla morte di John Fitzgerald Kennedy –prevede la rimozione per incapacità o mancanza di volontà di governare del presidente. Può essere invocato dal vicepresidente, unitamente a metà del gabinetto o metà del Congresso. Sebbene personalità come l’ex chief of staff John Kelly abbiano dichiarato che se fossero ancora alla Casa Bianca supporterebbero una tale misura, i vari capi-dipartimento (i nostri ministri) stanno preferendo dimettersi. La prima è stata Elaine Chao (Trasporti), seguita a ruota da Betsy deVos, paladina della scuola privata a scapito di quella pubblica. Quanto siano sincere o dovute piuttosto all’estremo tentativo di riguadagnare un po’ di rispettabilità non è dato sapere.
In questo momento è quindi più probabile che se ne vadano tutti lasciando Trump solo alla Casa Bianca piuttosto che ci sia un’invocazione del 25° emendamento. Ma 12 giorni sono lunghissimi nel “Trump-time”. Nel frattempo, ricompaiono le protezioni alle finestre e il povero Joe Biden si prepara a ereditare un paese orribilmente diviso. Se c’è un politico che ha una carica umana tale da comporre in parte le fratture è lui. Ma neanche Biden riuscirà ad arrestare il declino degli Stati Uniti perché ormai le divisioni interne sono estreme e la decomposizione dell’immagine del paese troppo avanzata, come dimostrano i comunicati degli Erdogan del mondo che, con il ghigno del rapace, raccomandano riappacificazione e rispetto delle istituzioni democratiche in quello che fu il faro della democrazia globale.
*da lavoce.info