Esteri
Turchia, così Erdogan si incorona Sultano e mira a Caucaso e Mediterraneo
Negli ultimi dieci anni circa, la Turchia, un membro critico della NATO e un tempo aspirante candidato all'adesione all'Unione europea, si è rimodellata come potenza revisionista sfidando apertamente non solo i suoi vicini regionali, ma anche gli alleati dei trattati come Francia e Stati Uniti. Attualmente, l'esercito turco - il più grande della Nato dopo gli Stati Uniti - è attivamente coinvolto in una serie di conflitti, tra cui Siria, Iraq, Caucaso meridionale, Libia e Mediterraneo orientale, con l'intenzione di guidare l'esito di controversie a suo favore. Questo comportamento rappresenta un cambiamento radicale rispetto alla precedente predilezione della Turchia per una politica estera che abbracciava lo status quo e che per lo più evitava le avventure straniere. Questo nuovo atteggiamento “aggressivo” è determinato dalla atavica assenza di una politica coesa della Ue, in cui la sola Francia si distingue per la sua opposizione ad un atteggiamento tirannico da parte del sultano turco, e il disimpegno internazionale operato dal nuovo corso trumpiano, interessato più a coltivare la sua guerra commerciale con il nuovo “nemico” cinese e a preservare la integrità di Israele, cercando di spezzare il fronte dei paesi arabi contro il nemico “sionista”.
L'ingegnere capo di questo cambiamento è Recep Tayyip Erdogan, prima come primo ministro della Turchia, dal 2003 al 2014, e poi come presidente. Sebbene la trasformazione della politica estera turca sotto la sua guida non abbia seguito una traiettoria lineare, è stata dominata da due caratteristiche fondamentali: primo, l'ambizione di Erdogan di spingere la Turchia, e per estensione se stesso, a un ruolo di leadership globale; in secondo luogo, utilizzare sempre la nuova politica estera attivista della Turchia come metodo per rafforzare la legittimità interna del regime e garantirne la sopravvivenza. Erdogan e il suo Partito per la giustizia e lo sviluppo, o AKP, hanno preso il potere per la prima volta nelle elezioni del 2002, ottenendo il 34% dei voti. Fin dall'inizio, hanno affrontato lo scetticismo, se non addirittura l'ostilità, da parte dell'élite laica e dei leader militari intransigenti a causa delle tendenze islamiche dei fondatori dell'AKP. I primi anni al potere del partito sono stati quindi contrassegnati da uno sforzo consapevole per migliorare le pratiche dei diritti umani e le libertà di stampa, incoraggiando al contempo una società civile vivace, in modo da ottenere l'accettazione in Occidente, specialmente in Europa, come mezzo per ottenere credito ed influenza IL suo intento era quello di dimostrare come l'islam e la democrazia potessero tranquillamente coesistere e questo lo aveva portato anche ad un soffio dall'entrare nella Unione Europea ed avere il beneplacito surrettizio degli Usa, che vedevano nella Turchia un possibile argine alle ambizioni della Russia di Putin sulla zona. Ma in fondo il suo obiettivo, evidentemente già allora era un altro. Ahmet Davutoglu, che è stato il principale guru della politica estera di Erdogan per molti anni prima di cadere e lasciare l'Akp l'anno scorso, ha presentato la Turchia come "potenza centrale", destinata a svolgere un ruolo influente nella sua regione e oltre. Alla fine, la visione di Erdogan culminerà nel suo mantra che "il mondo è più grande di cinque", un riferimento al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che Erdogan voleva riformato per riflettere la diffusione del potere nel dopoguerra in tutto il mondo.
I cambiamenti alla politica estera turca sono iniziati intorno al 2010, circa tre anni dopo che i vertici militari del paese hanno pubblicamente sfidato Erdogan cercando, senza riuscirci, di porre il veto all'ascesa alla presidenza di Abdullah Gul dell'AKP. Ciò ha consentito a Erdogan di consolidare il potere in patria riconfigurando le istituzioni turche, portandole infine sotto il suo controllo diretto e, con un referendum del 2017 molto contestato, sostituendo il sistema parlamentare con uno presidenziale che centralizzava tutti i poteri nel suo ufficio. La società civile, dalla stampa alle università e alle associazioni indipendenti: il dissenso non era più tollerato. E questo però senza che Usa ed Europa alzassero la voce per difendere la democrazia turca. I primi perchè ormai poco interessati a proseguire nel loro guardiano di sentinella del mondo e l'Europa perche sotto ricatto da parte di Erdogan che ha utilizzato lo spettro di liberare centinaia di migliaia di profughi fermi ai propri confini e desiderosi di arrivare in Europa. Per evitare tutto ciò l'Europa ha coperto di soldi Erdogan, che ha approfittato di questi soldi per rafforzare il suo potere e il suo esercito. Mentre stava sottomettendo i critici militari e interni, l'assertività di Erdogan in politica estera ha preso forma. La sua prima incursione è stata forse nel 2009, quando rimproverò Shimon Peres, allora primo ministro di Israele, durante una tavola rotonda al Forum economico mondiale di Davos, prima di precipitarsi fuori dal palco. L'anno successivo si è unito al Brasile per cercare di mantenere un accordo con l'Iran sul suo programma nucleare, con grande fastidio dell'amministrazione Obama, che all'epoca era favorevole a nuove sanzioni contro l'Iran. Un anno dopo, ha portato la Turchia nella guerra civile siriana dando il suo pieno sostegno all'opposizione armata a Bashar al-Assad, compresi i jihadisti. Anche la Turchia e gli Stati Uniti si sono scontrati sulla campagna contro lo Stato Islamico, poiché Erdogan ha rifiutato le suppliche di Obama di combattere i militanti, anche se molti di loro avevano attraversato il territorio turco per unirsi al conflitto. Lo scorso anno Erdogan ha persino ordinato un'invasione della Siria nord-orientale, attaccando le stesse forze curde che avevano combattuto lo Stato Islamico al fianco delle truppe statunitensi. Più recentemente, però il comportamento di Erdogan ha assunto una posizione molto più interventista e rivolgendo la sua attenzione a nuovi fronti, come quello libico o di recente a quello del Nagorno Karabakh.
Nel Mediterraneo orientale, poi, Erdogan ha sfidato con la forza la sovranità greca e cipriota inviando navi da ricerca sismica accompagnate dalla marina turca nelle loro zone economiche esclusive alla ricerca di risorse di idrocarburi. Solo l'intervento risoluto della Francia ha evitato che la contesa potesse sfociare in aperto conflitto, ma evidentemente, come visto in questi giorni, la cosa non è stata fatta passare come se niente da Erdogan. I suoi attacchi feroci alla Francia, dimostrano come Erdogan stia perseguendo un suo obiettivo egemone, utilizzando qualsiasi arma, compreso quella infame del radicalismo islamico, come già visto d'altra parte in Siria e adesso nel Nagorno Karabakh. La cosa forse più preoccupante delle iniziative di politica estera di Erdogan è stata l'acquisto di missili antiaerei S-400 dalla Russia, nonostante l'opposizione rumorosa della NATO e degli Stati Uniti. Tutto ciò riassume in pieno il carattere del sultano di Istanbul, si assume dei rischi per portare avanti la propria agenda, con l'aspettativa di essere isolato da qualsiasi turbolenza geopolitica a causa dell'importante ruolo della Turchia nella NATO e della riluttanza generale delle potenze grandi e piccole a contestare le sue mosse. Finora ha funzionato e quindi non ha il minimo interesse ad abbassare i toni e a ritornare nel suo alveo. E come in un grande roulette russa, spinge al limite il rischio, ma stando ben attento a non oltrepassare il limite, giocando troppo con la sorte.
Erdogan insomma è calcolatore e pragmatico quando necessario, ma questo non vuol dire che lui comunque non possa rappresentare una scheggia impazzita per i leader occidentali. In patria il consenso è massimo, anche perche tenuto strettamente sotto controllo e represso sul nascere. Anche se sanzioni o altri ostacoli lo costringono a scendere a compromessi su una questione - l'S-400, per esempio - aprirà rapidamente un altro fronte da qualche altra parte. Ma ormai il suo sentiero è segnato ed è quello di proseguire nella sua politica espansionistica a cui nessuno pare interessato, per ora , mettere un freno, anche perche le armi in suo possesso sia per la Ue che per gli Usa sono un valido deterrente.