Esteri

Usa, si scalda lo scontro tra la Clinton e Bush. Hillary favorita

Di Davide Borsani, Dottore di ricerca in Istituzioni e politiche presso l'Università Cattolica di Milano


Sono ancora molti, oltre quindici, i mesi che separano gli americani dal voto che designerà il successore di Barack Obama. Eppure le campagne elettorali dei primi candidati alla Casa Bianca sono già cominciate, mentre gli altri residui aspiranti scioglieranno a breve la loro riserva ufficializzando la propria intenzione a correre per la presidenza. In vista delle primarie, la situazione dei due partiti al momento pare assai differente. Se dal lato dei Democratici sembra esserci una sostanziale convergenza tra gli elettori nell’indicare Hillary Clinton come nome forte, da quello dei Repubblicani è l’incertezza a far da padrona. Ciò si riflette anzitutto sulla quantità delle candidature ad oggi ufficialmente presentate. La leadership del partito democratico è oggi contestata alla Clinton da solo tre rivali: Lincoln Chafee, governatore del Rhode Island, Martin O’Malley, governatore del Maryland, e Bernie Sanders, senatore del Vermont. Tra le fila del Grand Old Party, al contrario, sono già dodici i nomi in corsa; tra questi, gli ex sfidanti di Mitt Romney nel 2012, Rick Santorum e Rick Perry, gli astri nascenti Marco Rubio, Rand Paul e Ted Cruz, alcuni outsider estranei al mondo delle istituzioni, come Ben Carson e Carly Fiorina, vari politici navigati come Lindsey Graham, senatore della Carolina del Sud, e Mike Huckabee, già governatore dell’Arkansas, e infine il favorito della vigilia: Jeb Bush, già governatore della Florida nonché figlio d’arte e fratello di George Walker.

Dopo mesi di voci, la Clinton ha ufficializzato nell’aprile scorso la propria candidatura. L’attenzione mediatica sull’ex Segretario di Stato, già grande nell’attesa delle urne, è rapidamente cresciuta aprendo così alla prima tappa del tour elettorale il 13 giugno a Roosevelt Island, nello Stato di New York. Un luogo scelto non a caso dato che, come ha sostenuto, «le Quattro Libertà del presidente [Franklin D.] Roosevelt sono un testamento» e «un promemoria» ancora oggi validi per l’America e gli americani. Un’epoca, quella rooseveltiana, che ha segnato la storia degli Stati Uniti e di cui la Clinton vorrebbe farsi erede ponendosi, a suo dire, in scia del marito, William Jefferson (Bill), e dello stesso Obama. Nonostante le difficoltà dell’attuale presidente sul fronte interno, a cominciare da quelle nel partito democratico, Hillary ha incassato ben volentieri il suo sostegno in vista del 2016 riconoscendo una certa linea di continuità tra il proprio programma e le politiche dell’amministrazione Obama, di cui d’altronde è stata un fulcro fino al 2013. Ma se da un lato l’attuale presidenza passerà alla storia come un’esperienza prevalentemente centrista, dall’altro il discorso di Roosevelt Island ha rivelato una retorica fortemente liberal da parte della Clinton. La «prosperità» e la «democrazia», ha infatti continuato, devono essere sottratte dalle mani dell’«industria della finanza» e delle grandi «multinazionali» per essere riposte in quelle della middle class, delle famiglie, delle piccole imprese e delle classi meno agiate. Queste, ha osservato, hanno sofferto fin troppo di un’economia che «ha creato un’enorme ricchezza per pochi concentrandosi troppo sul profitto di breve termine e poco sul valore di lungo periodo». Four Freedoms erano quelle di Roosevelt, Four Fights sono quelli del programma della Clinton. Primo, ricostruire l’economia sulla base dell’uguaglianza riducendo la forbice che separa i più ricchi dai meno abbienti; secondo, rafforzare la famiglia media americana favorendo la parità di genere, riformando il sistema dell’immigrazione e riconoscendo i diritti della comunità LGBT; terzo, promuovere i valori americani e i diritti umani nel mondo ribadendo la leadership globale degli Stati Uniti; quarto, rivitalizzare la democrazia cambiando il sistema di voto, evitando l’impasse istituzionale e limitando l’influenza delle lobby.

A due giorni di distanza dal discorso di Roosevelt Island, il 15 giugno, il possibile leader dei Repubblicani, Jeb Bush, ha risposto alla Clinton concordando, sì, sulla linea di continuità che la lega a Obama, adottando però una chiave interpretativa opposta e denunciandone la pericolosità per il Paese. A Miami, altra location scelta non a caso per il primo discorso da candidato presidente, Jeb – che ha eliminato il suo cognome dai manifesti elettorali – ha affermato che «il partito ora alla Casa Bianca sta pianificando le primarie senza alcuna sorpresa in vista di un’elezione senza cambiamento per mantenere il potere e per proseguire con la stessa agenda sotto un altro nome [...] un’agenda progressista che ha tutto tranne che il progresso. Loro sono responsabili della più lenta crescita economica di sempre, del più grande aumento del debito di sempre, di un massiccio incremento delle tasse alla middle class». Bush non ha ancora presentato un vero programma elettorale, ma ha annunciato di sapere «come possiamo sistemare tutto ciò. Perché l’ho fatto» già durante il doppio mandato in Florida dove è stato «un governatore riformatore, non solamente un altro membro del club» dei politicanti. Gli strumenti che vorrebbe utilizzare sono d’altro canto ben noti all’elettorato repubblicano: il governo limitato, la lotta al potere dei sindacati e della burocrazia, la libera impresa, una rinnovata centralità della famiglia e del singolo individuo. L’obiettivo, questo sì già annunciato, è portare la crescita economica del PIL al 4% su base annua (nel 2014 è stata del 2,4%) e creare 19 milioni di posti di lavoro. Come, però, intercettare il voto della comunità ispano-americana, ovvero la problematica più spinosa per i Repubblicani che si è già dimostrata cruciale nel 2008 e nel 2012 nella duplice vittoria di Obama? Bush, che si è concesso en passant un richiamo all’epoca di Ronald Reagan, non ha (ancora) risolto l’enigma. Tuttavia ha dimostrato una certa consapevolezza rivolgendo non solo un appello bilingue, in inglese e in spagnolo, agli americani a votare per lui, a iniziare della primarie, ma anche mettendo in luce la sua esperienza in Florida – storica meta di immigrazione ispanica, e quella familiare – la moglie, Colomba, è stata una migrante messicana. Non è certo, questa, la soluzione ai dilemmi del GOP, ma apre comunque porte che Romney nel 2012 aveva lasciato (colpevolmente) chiuse.

Gli ultimi sondaggi hanno confermato che, al momento, Hillary Clinton e Jeb Bush restano i favoriti per la leadership dei rispettivi partiti. Secondo la rete televisiva NBC e il Wall Street Journal, tra i Democratici il gap che separa la Clinton dall’avversario più credibile, Sanders, è pari a ben sessanta punti percentuali, 75% contro il 15%, con gli altri concorrenti che si assestano al di sotto del 5%. Non pare, inoltre, che l’eventuale candidatura del vice-Presidente, Joe Biden, possa comportare particolari ostacoli per l’ex Segretario di Stato. Nel partito repubblicano, come osservato in apertura, la situazione rimane invece più incerta. Nell’attesa che Scott Walker, governatore del Wisconsin, sciolga le riserve proponendosi (forse) come principale rivale di Bush, è Rubio a guidare la fila degli inseguitori con un distacco da Jeb di 8 punti percentuali: 22% di consensi per l’ex governatore della Florida contro il 14% del senatore di origini ispaniche. Dietro lui, il neofita Carson (11%) e Huckabee (9%). Ancor più staccati i giovani Paul (7%) e Cruz (4%). Ma la corsa è chiaramente solo agli inizi. E i prossimi mesi non saranno certo privi di sorprese per ambedue i partiti.

Da ispionline.it