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Nicolai: ai ragazzi piace l’agricoltura, ma va cambiato il sistema
Dalla battaglia del grano al Made in Italy, fino alla deflazione. Parla il giovane della Coldiretti
«Non capisco perché Oscar Farinetti si candidi come l’alfiere del Made in Italy all’estero se poi è pronto a scagliarsi contro il prodotto italiano». Patrizio Nicolai, classe ’88, di Tuscania (nel Viterbese) è lucido nell’analizzare la crisi che oggi investe l’agricoltura, quanto consapevole della necessità di riformare dalla base il primo settore, anche e soprattutto per non precludere la domanda in crescendo di tanti ragazzi dal Nord al Sud del Paese. In prima linea nell’azienda di famiglia, è stato dal 2013 al 2015 Delegato Regionale Coldiretti Giovani Impresa Lazio. Poi, dal 2016, Presidente della fondazione Campagna Amica per la Regione (il circuito in vendita diretta di prodotti 100% nazionali). In mezzo un po’ di Tv - l’ultima volta, lo scorso 31 maggio, in un focus specifico del Tg2 - e «l’impegno quotidiano nel lavoro che ho sempre voluto fare».
Patrizio, centomila manifestanti qualche giorno fa hanno invaso strade e piazze del Paese. Si lamenta una perdita di 700 milioni di euro sul grano italiano. Un calo dei prezzi superiore al 40% per quello duro e allo stesso tempo un aumento, dal campo alla tavola, fino al 500%. La Coldiretti denuncia: servono 5 kg di grano per un caffè. Soluzioni?
«Non c’è guadagno né per chi produce né per chi consuma. Credo ci sia la necessità di un’etichettatura obbligatoria per i derivati del grano (pasta, pane, farine, biscotti, ecc.). Solo così si dà una reale possibilità di scelta e si viene incontro a un diritto imprescindibile di chi acquista: la verità. Il problema della trasparenza è conclamato da anni e oggi siamo arrivati al collasso. Il grano, poi, deve essere controllato in tutti i punti di accesso al Paese. Questo perché, per dire, quello che viene dal Canada non è improbabile contenga tracce di glifosati, o se viene dall’Ucraina potrebbe essere esposto a pesticidi da tempo vietati in Italia. E’ un dato di fatto. Dev'essere data una certezza su cosa arrivi sul piatto. Questo, attenzione, non significa promuovere un regime produttivo autarchico. Però oggi c’è un'informazione scorretta, un vero e proprio furto d’identità: e lavorare col grano diventa sempre meno remunerativo. Siamo a livelli improponibili».
Un pacco di pasta su tre è prodotto con grano estero senza che l’etichetta lo indichi.
«Se si continua così, già dal prossimo anno, lo saranno almeno due su tre. Senza dubbio».
Eppure c’è chi la pensa diversamente: il grano italiano non sarebbe sufficiente, di per sé, a garantire un prodotto di qualità, né a soddisfare la domanda dei consumatori. Penso a Oscar Farinetti, fondatore della catena Eataly, o a Riccardo Felicetti, presidente dei pastai di Aidepi.
«Non capisco perché personaggi come Oscar Farinetti si candidino come alfieri del Made in Italy all’estero, tra l’altro operando con metodi, diciamo, non proprio etici, se poi sono pronti a scagliarsi contro il prodotto italiano. E’ vero: il grano italiano non basta a soddisfare completamente la domanda nazionale. Però, non credo sia una buona politica quella di declassare un’eccellenza del nostro Paese. La pasta di grano 100% italiana esiste. Penso alla pasta Ghigi, oppure a quella di Gragnano. E sono solo due esempi. Affermare che sia imprescindibile l’apporto dall’estero su tutti i marchi non corrisponde alla realtà e non è sensato. Si sacrifica tutto sull’altare della convenienza. Il grano estero è migliore? Bene, allora si cominci a produrre solamente con quello. Invece si continua a etichettare sfruttando la garanzia italiana agli occhi di chi consuma. C’è un'ipocrisia di fondo così, no?»
Il Ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, ha stanziato 10 milioni di euro per il piano cerealicolo e ha invocato più trasparenza. Quanto può incidere la politica sulla questione?
«Deve incidere. Certo, si parla anche di leggi comunitarie, veicolate da Bruxelles. Ma la spinta politica, se unitaria, sarebbe importante. Sul grano, e in generale sul primo settore, deve trovarsi una coesione nazionale. Specie per una legge che tracci sia la materia prima sia i vari derivati. E a cui segua una corretta informazione. Che io compri un pacco di pasta e non ne conosca l'esatta provenienza è anche un problema politico».
Secondo recenti dati Cia (Confederazione italiana agricoltori) e Confagricoltura, la burocrazia - tra ritardi e disservizi - per un qualunque imprenditore agricolo, contadino o allevatore costa 4 miliardi di euro l’anno e occupa almeno 100 giornate lavorative a testa. Un cappio al collo.
«Solo 100 giornate? Direi anche di più. Dal cappio ci si libera. La macchina amministrativa invece è una spada di Damocle. Ovvio, si parla di passaggi fondamentali da non mettere in discussione. Anche perché proprio dai controlli viene la qualità. Ma la burocrazia non può essere preponderante nella nostra attività. E infatti, ad oggi, è uno dei fattori decisivi per la crisi agricola. Non dico servano meno scrupoli e meno capillarità: però c’è bisogno di una maggiore armonia. Più efficienza e meno passaggi a vuoto».
In panoramica, oltre la questione grano, la deflazione sta distruggendo tutto il primo settore. Ci fosse il baratto si dovrebbero scambiare 11 uova per il solito caffè, oppure 2 kg di mele. Tutta l’iter produttivo, dal campo al punto vendita, lascia una miseria nelle mani del contadino. 310mila imprese, in 15 anni, hanno chiuso i battenti. E’ una crisi sistemica?
«I prezzi sono drammaticamente in calo. Basta sapere che dal 1980 siamo passati da circa 180mila stalle a meno di 30mila. Va cambiato il sistema, ci si trova in una posizione di subalternità rispetto alla catena del mercato. Cioè con zero forza contrattuale, senza la capacità di imporre un prezzo minimo che significherebbe certezza di guadagno. Il sistema va scardinato dal basso, tornando a considerare la qualità della filiera italiana come prima tutela per il consumatore. E non è speculazione sul Made in Italy, questa. I nostri prodotti sono tra i più controllati e nonostante questo solo una mozzarella su 4 di quelle che mangiamo è fatta interamente di latte italiano. Tra 2013 e 2014 dalla Germania abbiamo importato 60milioni di cosce di maiale. O ancora: mangiamo la bresaola prodotta in Valtellina ma, spesso, con la carne del Brasile. Facciamoci delle domande in merito. La correttezza nelle etichette, e dunque esercitare il diritto di discernere i prodotti - anche per capire se tutte o solo alcune fasi della lavorazione sono state eseguite in Italia - è una delle strade da seguire. Farebbe aumentare il valore commerciale del prodotto».
La fondazione Campagna Amica, una rete nazionale di vendita diretta di prodotti rigorosamente italiani e di origine certificata, può essere una risposta valida?
«Campagna Amica è proprio una delle risposte alla crisi. E’ un movimento, lanciato dalla Coldiretti, che raccoglie fattorie sociali, aziende agricole, trattorie. Si può mangiare sul posto e poi comprare i prodotti. Circa 20mila realtà di vendita diretta che insieme, restando agli ultimi anni, hanno un fatturato di 1 miliardo e mezzo e occupano 150mila persone. Campagna amica è il trait d’union tra produttore e consumatore. Saltando vari passaggi della filiera si riesce ad aumentare il profitto per chi vende e abbassare i costi per chi compra. Anche se non può essere la sola chiave per uscire dalla crisi attuale, di fatto, c’è un vantaggio tangibile: è un modello che funziona».
Ma i ragazzi, in tutto questo, come si inseriscono? Il settore agricolo può rappresentare una carta vincente contro l’attuale 36,5% di disoccupazione giovanile?
«Lo spazio per l’inserimento dei giovani, con un apporto anche innovativo, c’è. Il settore agricolo è una risorsa importante per incentivare l’occupazione e abbassare quella percentuale. A questo va aggiunto un dato: i giovani hanno voglia di impiegarsi nell’agricoltura. Su più di un milione di partite Iva, oltre 200mila appartengono alla categoria Under35. E le iscrizioni agli istituti tecnici e alle Università di Agraria sono in costante aumento. Insomma, linfa nuova ce n’è eccome. La situazione attuale, però, non rende competitivo questo lavoro. Specie nel Sud, dove molti preferiscono andarsene e rinunciare alle ambizioni in un settore in cui credevano. Danneggiare l’agricoltura, portare al collasso le imprese, soprattutto quelle piccole, è gravissimo. Purtroppo non si comprende l’impatto di queste realtà sul territorio e sulla comunità. L’agricoltura, in Italia, dovrebbe essere motivo di orgoglio».