Libri & Editori

“Cose che non si raccontano”: quando la ricerca della maternità si trasforma in un percorso di dolore

di Chiara Giacobelli

L’ultimo romanzo di Antonella Lattanzi, edito da Einaudi, è rientrato nella dozzina del Premio Strega 2024 e ha fatto molto parlare di sé

Cose che non raccontano è un memoir spietato che arriva dritto al cuore e tratta quegli argomenti ancora oggi considerati tabù: la ricerca della maternità, l’infertilità, il dolore fisico e psicologico delle donne in determinate situazioni. Antonella Lattanzi, pubblicata da Einaudi, si mette a nudo per regalarci, in fondo, speranza e condivisione.

È riuscito ad entrare nella dozzina del Premio Strega 2024 Cose che non si raccontano, l’ultimo romanzo della scrittrice edita da Einaudi Antonella Lattanzi, e questo è un risultato che senza dubbio ha garantito al libro la giusta visibilità. Giusta perché il tema è quanto mai scottante, attuale, ma soprattutto ancora poco, o per nulla, affrontato, per lo meno con una tale onestà. Quella della Lattanzi è infatti un’opera intensa e personale, che non si fa scrupolo di utilizzare un linguaggio diretto, autentico per narrare episodi per alcuni forse scomodi, se non persino tabù. La storia si snoda infatti attorno al desiderio di maternità della protagonista, un percorso che tuttavia si rivela segnato da dolore, speranza e un’inevitabile trasformazione, nel bene e nel male. Dunque un racconto intimo che scava nelle emozioni più profonde, mettendo in luce le fragilità e la resilienza dell’essere umano nella sua interezza, ma con un particolare riferimento alle donne, ancora oggi vittime di una violenza non detta, al di là di quella “tradizionale”.

Il romanzo, disponibile anche su Audible in esclusiva letto da Rosa Palasciano, prende il via dal desiderio di una coppia di avere un figlio, ma ben presto questo sogno si trasforma in una lotta contro l’infertilità e poi in un susseguirsi di ostacoli che portano la stessa autrice a confrontarsi con sé stessa, con il suo corpo e, non ultimo, con le aspettative sociali. Un’opera di spessore e di livello, perché la narrazione in prima persona della Lattanzi, a tratti magnetica, non si limita a seguire la storia di una maternità mancata, ma esplora anche il peso dei silenzi, delle parole mai pronunciate e di quelle cose che, appunto, non si raccontano, nonostante siano destinate a segnare in profondità l’identità di chi le vive e i rapporti instaurati con le altre persone, di ogni tipo (dai medici agli amici, dal partner ai genitori, fino ai colleghi).

“Ho pensato che quanto mi era successo doveva essere raccontato – ha spiegato Antonella Lattanzi ai microfoni di Affaritaliani.it – E cioè prima decidere di abortire, perché ero molto giovane e non avevo gli strumenti per poter diventare madre, poi cercare per tutta la vita di conciliare il desiderio di maternità con quello di ambizione, e quindi di realizzarmi nella letteratura, nella scrittura, che sono sempre stati i miei desideri più grandi. A un certo punto trovare il coraggio di fare un figlio, cercarlo, non riuscirci naturalmente, entrare allora nel tunnel dell’orrore della fecondazione medicalmente assistita, specie durante il Covid. Rimanere infine incinta, ma riscontrare un problema molto grave con la gravidanza, che poi non è andata a termine; e ancora subire tantissimi episodi di violenza ostetrica. Ecco, tutto quello che mi è successo è un po’ il sunto di ciò che potrebbe accadere a una donna nell’età della riproduzione, eppure di queste cose non si parla: non si parla di aborti subìti, non si parla di aborti decisi, non si parla di quanto può essere difficile la ricerca di un figlio, di quanto può essere distruttivo il desiderio di un figlio, per sé stessi e per la coppia; non si parla mai della paura di avere dei figli, della paura di non essere una buona madre, non si parla mai neppure del percorso di fecondazione medicalmente assistita, o del fatto che tutte le donne, indipendentemente da gravidanze o meno, almeno in un momento della loro vita abbiano subìto una violenza ostetrica. Queste donne non avevano una voce per parlare della loro storia; io ce l’avevo e la dovevo usare, dovevo raccontare”.

Lo stile della Lattanzi è asciutto e diretto, ma forse proprio per questo capace di far emergere una vasta gamma di emozioni; il suo linguaggio si dimostra preciso e puntuale ad ogni pagina, mai eccessivo, tanto da riuscire a trasmettere il senso di soffocamento e angoscia che la protagonista prova di fronte alle difficoltà, spesso vissute come fallimenti personali. Al tempo stesso, il tono non cede alla disperazione, ma trova una via di uscita attraverso la riflessione e la consapevolezza. La scrittura scorre quindi in modo fluido, trovando la sua forza nei momenti di pausa, nei silenzi che la Lattanzi lascia volutamente aperti, permettendo al lettore di riempirli con il proprio vissuto. Tra i passaggi centrali del libro spiccano le descrizioni delle sedute mediche e dei trattamenti, che assumono un valore quasi simbolico, riflettendo il rapporto controverso delle donne con il proprio corpo, frutto della pressione socialmente ricevuta, a livello conscio e inconscio, per una vita intera, spesso sin da bambine. L’esperienza della maternità mancata diventa così metafora di una ricerca più ampia, quella dell’accettazione di sé e della propria vulnerabilità.


 

“A proposito di epigrafi, quella del mio romanzo è di Antonello Venditti e dice le bombe delle sei non fanno male, è solo il giorno che muore. Ci sono tante interpretazioni su che cosa siano le bombe, ma quando io ho deciso di scrivere il mio romanzo mi sono resa conto che questa epigrafe conteneva per me il senso di tutto – ha raccontato Antonella Lattanzi nel corso della tappa a Macerata Racconta dello Strega Tour, intervistata da Loredana Lipperini – Il fatto di essere qui oggi a parlare con voi di una storia così triste e dolorosa che mi è successa e l’esistenza di un romanzo che, attraverso le parole, riesce a trasmetterla ad altre donne, magari aiutando qualcuna di loro, è davvero una grande cosa. Quando finalmente mi sono decisa a cominciare la ricerca di un figlio, il corpo ha detto: no, non è questo il momento. Non soltanto per l’età, ma soprattutto per il senso di colpa, perché la società di oggi non ci permette ancora di perdonarci quando facciamo delle scelte molto forti. Io ho preso ben due volte la decisione non semplice di abortire quando ero più giovane e, nonostante io creda fortemente nel diritto all’aborto, dentro di me si era istillato questo atroce senso di colpa, che mi diceva: hai rifiutato quelle occasioni quando ti sono state date, ora non puoi essere tu a decidere quando cercarle. Questo romanzo parla molto del fatto che tutti si impongono sul corpo della donna, che la maternità è sempre unita alla sofferenza e che c’è un mondo esterno pronto a sentenziare se ci meritiamo o meno di essere madri”.

L’opera è stata accolta positivamente sia dalla critica che dal pubblico, ricevendo importanti riconoscimenti e toccando il cuore di migliaia di donne. D’altra parte, la dozzina del Premio Strega non ha fatto altro che confermare l’apprezzamento del mondo letterario per la scrittura della Lattanzi, già nota per romanzi precedenti come Una storia nera, che esplorava altre tematiche complesse come la violenza domestica, o il thriller psicologico Questo giorno che incombe. Cose che non si raccontano, pur senza perdere quel tocco noir che da sempre caratterizza la narrativa dell’autrice, si discosta da tutti i suoi lavori precedenti essendo un memoir che offre uno sguardo sincero e profondo sulla sofferenza e la rinascita personale, affrontando temi intimi senza cadere nella retorica e accendendo i riflettori su questioni che dovrebbero essere molto più presenti tra gli scaffali delle librerie.