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Il Tesoriere, Gianluca Calvosa: quando i comunisti mangiavano le caramelle

di Francesco Signor

La produzione dolciaria era un termometro per lo stato di salute dell'economia dell'Urss: quando soffriva la gente rinunciava per prima cosa ai dolci

Recensione de Il tesoriere, di Gianluca Calvosa per Mondadori

Cominciamo col dire che questo libro è un'opera di fantasia, dove i personaggi e i luoghi citati sono invenzioni dell'autore e hanno meramente lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. E aggiungerei anche, per completezza dell’informazione, che qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

Una premessa inevitabile visto che si parla di un romanzo ambientato tra il 1972 e il 1976, prima dell’omicidio Moro, e potrebbe benissimo passare per un saggio su quegli anni romani da luna park degli intrighi tra comunisti, democristiani, KGB, CIA, servizi deviati, prelati corrotti, IOR, Enrico Mattei, ENI, interessi del PCI in Russia, brigatisti e chi più ne ha, più ne metta. Qualcuno lo ha definito una spy story, ma evidentemente non ne deve mai aver letta una. Diciamo che è un saggio romanzato, una cosa che gli americani fanno spesso.

Ma partiamo dall’inizio, perché è importante capire subito se riuscirete a reggere il ritmo di queste quattrocento pagine della nostra storia recente. Calvosa o il suo editor hanno optato per un passo felpato con questo tiro: “Era ancora notte quando Michele uscì di casa infilandosi in tasca il berretto di flanella. Faceva caldo nonostante fosse quasi novembre, però il tempo in quella stagione poteva girare improvvisamente. Il profumo dei limoni nel piccolo giardino lo fece pensare a sua madre. Li aveva voluti piantare lei quando era nato e se n'era presa cura fino a poco di morire”. Un buon inizio, niente da dire.

C’è anche il profumo dei limoni nel piccolo giardino che fa tanto Claudio Baglioni, ma anche un po’ Eugenio Montale e Clara Sánchez. Ora, il consiglio che vi posso dare e di continuare a leggere perché il buon Calvosa vi accompagnerà per mano in quei vicini anni ’70, rispolverando fatti e misfatti di quell’epoca, attraverso la storia di personaggi che, non mi stancherò mai di ripeterlo, sono solo il frutto della fervida, per quanto malata, immaginazione dell’autore.

La "valigetta" con i soldi per i partiti comunisti

E poi c’è la valigetta con i soldi di Mosca che si capisce subito essere l’architrave del romanzo. Basta leggere quello che dice Giulio, uno dei personaggi fantasiosi creati da Calvosa, ad Andrea Ferrante, l’anonimo archivista milanese strappato al suo torpore, quando viene convocato a Roma dal segretario del PCI che lo nomina, "contro ogni logica e consuetudine", tesoriere del partito: "tu pensi che il partito lo governi il Segretario. Il PCI senza quei soldi non esiste. L'Unità e tutti gli altri giornali senza la valigetta avrebbero chiuso da un pezzo. Per non parlare dell'esercito rosso”.

A leggere questa cosa mi è venuto in mente quello che mi raccontò negli anni ‘80 un vecchio iscritto del Partito Comunista a Torino che mi insinuò l’idea che il Festival dell’Unità, allora ancora molto in auge, fosse un modo come un altro per riciclare i soldi del Cremlino. Ovviamente siamo sempre nell’ambito della fantasia, dove i luoghi e i personaggi citati sono solo invenzioni di chi volete voi.

Tra le più divertenti recensioni sul libro che ho letto c’è quella di Claudio Velardi, giornalista, saggista, ex dirigente del Partico Comunista Italiano, spin doctor di Massimo D’Alema e fondatore del quotidiano il Riformista. Tanto per essere precisi, Gianluca Calvosa lo conosce bene perché è stato direttore generale dal 2005 della Edizioni Riformiste, casa editrice de “Il Riformista”. In sostanza ha scritto bonariamente che Calvosa si è permesso di mettere in piazza dentro un romanzo la storia del '900 nei suoi punti più delicati, più intricati, più drammatici.

Ora vi starete probabilmente chiedendo come gli sarà venuta in mente questa idea strampalata di raccontare i retroscena del Bottegone, come lo chiamavano i compagni. Mi riferisco alla sede romana del partito che, come ricorda Calvosa, non era certo una di quelle sedi che vengono ricordate come meraviglie dell'architettura, ma il suo aspetto austero rifletteva il rigore e la solidità del partito. Allora provo a spiegarvelo proprio con le parole dell’autore, meticoloso ingegnere imprestato all’editoria. Le torbide vicende che ruotano intorno al tesoriere sono il frutto di un litigio, avvenuto alcuni anni fa al margine di un consiglio di amministrazione, tra due ex-comunisti che avevano ricoperto ruoli di primo piano nel PCI e in quello che ne era seguito.

Nella sua confessione, Calvosa si premura cautelarmente di sottolineare di come nutrisse stima e simpatia per entrambi, frequentandoli assiduamente in quel periodo per ragioni lavorative. Si rinfacciavano chissà cosa, riguardo quell’epoca, come se fossero stati su due fronti diversi e non nello stesso partito. Quello più anziano, il comunista con il basco, come lo descrive l’autore, a un certo punto prese il soprabito e se ne andò. Mentre l’altro disse a Calvosa: "Tu quello non lo conosci. Quando avevamo vent’anni e lui passava nei corridoi noi tremavamo".

Evidentemente quella discussione deve aver toccato le corde giuste della fantasia del nostro ingegnere scrittore, dando la stura a questa storia scritta, lo sottolineo per chi fosse un po’ duro di comprendonio, molto bene e con uno stile decisamente cinematografico. Se proprio devo dirlo c’è un punto preciso del romanzo dove la storia mi ha agganciato e mi ha strattonato la curiosità fino alla fine. Si trova a pagina 57, nei paraggi dell’ottobre 1971. A quell’epoca, come riportato nel libro, la crescita dell'occupazione al Nord rallentava, ma era un tratto comune a tutte le economie d'Occidente. Dopo il boom dell'immediato dopoguerra, i mercati stavano tirando il fiato e si preparavano a uno sviluppo meno disordinato. Una crisi che non risparmiava nemmeno il blocco delle repubbliche socialiste.

Le caramelle come indice dello stato di salute dell'economia dell'Urss

Il protagonista, Andrea, scrive nella sua relazione periodica da archivista: "Fossi in loro mangerei più caramelle". E così scopriamo che la produzione dolciaria comunista era un termometro infallibile per interpretare lo stato di salute dell'economia dell’Unione Sovietica. Infatti, quando l'economia soffriva, la gente per prima cosa rinunciava ai dolci, per ultima all'alcol. Con meno consumi, l’industria alimentare dell’Est ristagnava e iniziava a utilizzare materie prime di second'ordine, finendo per produrre dolci scadenti. E le caramelle scadenti si attaccano alla carta, come spiega proprio l’arguto tesoriere. Non so se questa cosa sia frutto della fenomenologia dell’immaginazione di Calvosa, ma mi viene da credergli. C’è, però, una cosa che mi tormenta e devo assolutamente rimproverare all’autore.

Avendolo conosciuto ne ho apprezzato sinceramente la sagace ironia partenopea, un talento formidabile che in questo libro non ha assolutamente sfruttato, smarrendo una clamorosa occasione, visti i temi e i personaggi che deambulano su queste pagine. Sì, qualche battuta si trova a cercarla bene, ma gli è sicuramente scappata senza volerlo, come quando mette in scena questo lesto scambio di battute tra Victor Messina, il capostazione della CIA a Roma, e Don Ottavio, il fratello del tesoriere:

-    “E cosa potremmo fare noi per arginare la famelica orda comunista?" 
-    "Loro hanno quindicimila sezioni, voi avete cinquantamila parrocchie."
-    "Comprenderà bene come non sia semplice predicare contro chi promette di abolire la povertà"
-    "Don Ottavio, se i comunisti abolissero la povertà le toccherebbe trovarsi un lavoro. Uno vero".

Il sipario cala tra gli applausi. Ma non basta, voglio chiudere con un altro guizzo dell’autore che, se non si fosse sciaguratamente risparmiato, avrebbe potuto regalarcene molti altri. Mi riferisco al momento in cui il tesoriere incalza il suo autista Paolo Soardi per sapere chi fossero e cosa volessero certi loschi figuri. Paolo gli risponde, come se fosse la cosa più normale del mondo: “quella era la camorra”.

Il tesoriere ribatte quasi lo volesse perculare, tipo “sì, adesso i camorristi si fingono poliziotti”. Sembra davvero di vederli quei due, uno di fronte all’altro, mentre Paolo guarda Andrea, tra lo stupito e il compassionevole, e gli replica: "E chi ha detto che fingevano?". In queste poche righe c’è del buon materiale per una nuova serie di Saviano.