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“Invernale”, uno dei romanzi più belli dello Strega 2024. Recensione
Con il suo breve romanzo edito da La Nave di Teseo, Dario Voltolini è entrato nella sestina dello Strega 2024
La figura del padre e l’escalation della malattia che lo portò alla morte sono al centro di Invernale, il romanzo che Dario Voltolini ha pubblicato con La Nave di Teseo ed è rientrato nella sestina del Premio Strega 2024.
A nostro modesto parere si tratta di uno dei libri più belli di questa edizione dello Strega, sebbene sia un racconto di appena 140 pagine, peraltro pubblicato da La Nave di Teseo in formato ridotto; a conferma che non è la lunghezza a determinare la qualità di un’opera, bensì il contenuto e il modo in cui esso viene veicolato. Lo stile di Voltolini è infatti alquanto particolare, con frasi eleganti e raffinate intrise di poesia che si alternano a scene crude e dirette, senza filtri. Moltissime le metafore usate dall’autore per descrivere stati d’animo o anche solo momenti di vita quotidiana, studiate con consapevolezza e attenzione, come d’altra parte lo stesso Voltolini ci aveva spiegato in un’intervista. “Scrivo da molti anni e nel tempo la mia lingua si è evoluta e il mio rapporto con lei è maturato. Questo grazie al fatto di essermi costantemente confrontato con scrittori e scrittrici della mia generazione o più anziani, ma anche, negli ultimi anni, più giovani. Mi sono sentito solo adesso abbastanza padrone del mio strumento per poter concepire questo libro, che per me è il più importante scritto finora”.
Il tema centrale è quello del rapporto tra padre e figlio, ma non è meno importante la narrazione di come una persona semplice, pragmatica e abituata alla forza fisica si ritrovi a un certo punto a dover fare i conti con una malattia che a poco a poco si prende tutto. Nonostante i capitoli ambientati al mercato, dove il padre svolge il mestiere del macellaio tra il sangue e la morte come elementi del quotidiano, la figura di questo uomo che gradualmente perde potere su sé stesso suscita empatia e anche una certa tenerezza. Lui – anche agli occhi del figlio ancora giovane – ha sempre rappresentato la sicurezza, la perfezione del movimento e dei colpi, che sanno bene dove e come tagliare: non c’è indugio, non c’è tempo per soffermarsi troppo a pensare o filosofeggiare, c’è una realtà semplice fatta di elementi concreti. Eppure, un incidente prima e una serie di disattenzioni poi mettono in dubbio l’intero sistema concettuale entro cui l’uomo vive. Il corpo, che ha sempre padroneggiato così bene, all’improvviso gli sfugge: si sente stanco, confuso, lento, quasi ovattato dentro una bolla che lo allontana dalla realtà e lo porta a fare sempre più fatica in ogni gesto, conversazione, pensiero. «I movimenti li deve riprogrammare, il corpo comincia a dare risposte personali ai comandi impartiti dal centro. Bisogna che lui dia degli impulsi che tengano conto di questo. Deve essere infinitamente più attento a se stesso, certi santoni chiamerebbero ciò: meditazione. Consapevolezza. Presenza. (…) Bene, lui la fa. Deve. Non è possibile operare diversamente».
Il romanzo segue di fatto la progressione della malattia, che solo dopo molti esami si scopre essere un cancro. Prima del tempo della cura e della battaglia c’è l’infinito tempo dell’attesa, durante il quale ci si sente del tutto impotenti, impreparati, specie di fronte a dottori o luminari che dovrebbero tranquillizzarci, invece talvolta creano una confusione ancora maggiore della nostra. Esami ripetuti, risultati che vanno interpretati, diagnosi ritardatarie e intanto il tumore avanza, si impossessa del corpo, lo fa proprio. È una fase della malattia forse persino peggiore ai tentativi di cura della stessa, perché ancora non si sa contro chi e cosa si tra combattendo.
«Ma che cos’è l’attesa, questa condizione che è sempre lì sotto le piastrelle ma che poi emerge tutta insieme a un certo punto? Lui non stava in attesa sempre? Non sei stato sempre in attesa di qualcosa, tu come tutti? Adesso però l’attesa, anziché essere una condizione senza contenuto, sta per dimostrarsi incubando dentro la sua pancia un incubo che ha dimensioni che fino a poco tempo fa non si potevano concretamente immaginare. (…) È da molto lontano che arriva il suono di questa attesa, da molto vicino, dalle pareti dell’universo come un grido di un grido muto che gli hai sparato contro, che ha viaggiato chilometri e stramiliardi di chilometri prima di rimbalzare e di tornarti indietro. È da moltissimo vicino che arriva il suono, dal centro di te, più vicino non si può». Si noti il linguaggio particolare con l’uso di quelle metafore anche piuttosto complesse di cui si diceva prima, i giochi di suoni e significati attraverso la scelta delle parole (incubando - incubo), l’utilizzo portato allo stremo dei superlativi e la voluta scelta di alcune specifiche ripetizioni.
C’è poi tutta la tematica riguardante il rapporto tra il padre e il figlio, il genitore che insegna e l’alunno che apprende per sostituirlo laddove si può – seppur con l’aiuto di un garzone – ed è una relazione fatta anche di vuoti, assenze, mancanze, nonostante sia sana e positiva. Ha detto Voltolini a proposito di suo padre: “Dal punto di vista personale posso dire di aver avuto un padre tutt’altro che autoritario. Ma come figlio unico, e maschio, gli riconosco, e nel libro cerco di celebrarla, una grande autorità sostanziale, fatta del suo modo di stare al mondo e di affrontare la vita. Non era un padre-padrone, non era nemmeno, al contrario, un amicone. Era un padre. E, in particolare, per mia fortuna, il mio”.
Eppure accade che quando alla fine la malattia, dopo molti viaggi, sacrifici, tentativi, cure, dolori e speranze vane, giunge al termine, in quel preciso istante il figlio è distante, a casa di amici per un paio di giorni di riposo. Un assentarsi al momento sbagliato senza saperlo e senza volerlo, che tuttavia avrà conseguenze devastanti per lui, anche a causa della mancata empatia da parte della famiglia. Basta un attimo, e si diventa un reietto, un nemico.
«Nel nostro appartamento (è ancora anche il suo?) camminano figure di persone. Come in una fessura che si apre all’improvviso nella scena scorgo mio nonno. Anche lui mi guarda. Sebbene la sua vista sia minata da tempo da due cateratte operate male, mi pare che mi veda. Mi pare cioè di essere visto. Infatti così è: mi viene incontro, mi aveva rilegato l’enciclopedia, mi aveva portato con sé quando ero piccolo in lunghe passeggiate, mi aveva fatto coni di carta che utilizzavamo come bicchieri volanti per bere l’acqua delle fontanelle verdi con la testa di toro dalla cui bocca esce il getto, fondevamo insieme il piombo che poi si temprava nell’acqua fredda, mi viene incontro e per tutto il nostro passato io non mi curo d’altro se non di andargli incontro anche io, sebbene il suo atteggiamento non sia quello consueto, cosa che non noto per nulla. Mi dice le prime parole che mi pare di sentirmi rivolgere in questa cruda scena glaciale: “E tu non eri neanche là”».
Ci sarebbe ancora molto altro da dire e da scrivere nonostante la brevità dell’opera, che è però così intensa e intrisa di emozioni, sentimenti umani condivisibili, dettagli che entrano dentro e lasciano il segno. Chiudiamo con le parole che i colleghi scrittori hanno speso per questo romanzo assolutamente consigliato. Romana Petri ha detto: “Dario Voltolini si conferma una delle voci più interessanti del nostro panorama letterario. Il rigore emotivo è la sua grande cifra”; mentre Sandro Veronesi ha affermato: “Invernale è un romanzo potentissimo, che ti atterra mentre ti eleva e ti prende alle spalle mentre ti guarda in faccia – e Voltolini è un grande scrittore, c’è poco da fare”. Buona lettura.