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“Le meduse non hanno orecchie” di Adèle Rosenfeld: la recensione.

di Chiara Giacobelli

Finalista al Premio Goncourt Opera Prima, tratta il delicato tema della sordità

Adèle Rosenfeld, parzialmente sorda dalla nascita, racconta in Le meduse non hanno orecchie il calvario di ritrovarsi a metà strada tra i sordi e i normodotati, portando alla luce l’importante problematica delle malattie invisibili.

Se sei sordo sin da neonato in qualche modo questa società ti fornisce gli strumenti per vivere in maniera dignitosa: il tuo handicap viene riconosciuto e hai quindi delle agevolazioni fondamentali, ti viene insegnata la lingua dei segni e molto probabilmente conoscerai altre persone con la tua stessa disabilità, una comunità della quale ti sentirai parte. Per tutto il resto della gente sarai qualcuno certamente sfortunato, ma non colpevole e quindi degno di rispetto ed empatia. Al contrario, se possiedi un udito perfetto non avrai nessuna di queste problematiche, condurrai un’esistenza normale al pari dei tuoi coetanei e non penserai mai neppure a quanto sia straordinario l’apparato uditivo, in quanto lo darai per scontato. Se invece nasci con un orecchio completamente sordo e l’altro lesionato, in grado di carpire alcuni suoni ma non tutti, non abbastanza udente per stare al passo con le conversazioni quotidiane, che cosa rappresenterai per gli altri? E cosa potrai fare per non sentirti diverso da tutti, né l’uno né l’altro, esemplare unico di una razza imperfetta?

Le meduse non hanno orecchie
 

È questo il tema centrale di Le meduse non hanno orecchie, un bel romanzo pubblicato in Francia da Adèle Rosenfeld, già con un’esperienza decennale nell’editoria, arrivato finalista al prestigioso Premio Goncourt come Opera Prima. In Italia è stato recentemente edito da Piemme ed è una storia che consigliamo di leggere, poiché mette in luce le difficoltà di tutti coloro che vivono il calvario di una malattia invisibile. Che cosa sono le cosiddette malattie invisibili? Sono quelle patologie o disabilità che colpiscono gli individui ma, pur essendo talvolta estremamente invalidanti – in alcuni casi più di una malattia conclamata ed evidente –, non risultano percepibili dall’esterno e di conseguenza portano i normodotati a pensare che non esistano. Non si vede, quindi non c’è. La diretta conseguenza è: questa persona sta fingendo. Le malattie invisibili sono tra i peggiori mali della contemporaneità, in quanto molto diffuse sebbene per nulla tutelate, talvolta neppure riconosciute dalla sanità. Chi ne soffre non soltanto deve sopportare il dolore o il disagio quotidiano dovuto alla patologia, ma anche lo sforzo continuo di essere creduto, oppure di far finta di niente e nascondere la sofferenza.

Nel caso di Louise, la protagonista di questo romanzo audiolesa sin dalla nascita, ma non abbastanza da essere considerata sorda a tutti gli effetti, spiegare a coloro che incontra nel quotidiano la sua complessa situazione è talmente stressante, e spesso anche inutile, da portarla a preferire di apparire stupida. Il mondo non è in grado di accogliere un essere a metà come lei, pertanto giorno dopo giorno si isola sempre più nella sua dimensione personale, specialmente dopo che subisce un grave peggioramento della malattia e rischia di perdere del tutto il poco udito che ha. Di fronte a una diagnosi nuova e imprevista, le aspetta una scelta per niente semplice: lasciarsi inghiottire dal silenzio e passare una volta per tutte alla comunità dei sordi, imparando tardivamente la lingua dei segni, oppure tentare l’impianto, che però implica un’operazione delicata e la perdita totale di quel minimo udito naturale che le resta. La decisione è difficile, inoltre intorno a lei c’è chi la sprona a farsi impiantare – come la madre e i medici – e chi invece vede nella nuova tecnologia metodi complottisti per controllare le persone (Anna, l’unica cara amica che ha).

Il libro racconta così uno spaccato della vita di Louise, tratto in maniera autobiografica dall’esperienza dell’autrice, nel momento forse più delicato della sua crescita personale. La sordità sempre più invalidante pervade infatti ogni ambito della giornata: a lavoro, dove i colleghi la considerano un’impostora per aver ottenuto il lavoro grazie a un’invalidità che non riconoscono; in ospedale, attorniata da medici, infermieri e operatori per cui non è altro che un numero; dalla logopedista, la quale svolge per Louise quasi un ruolo di psicoterapeuta e a poco a poco la spinge verso l’accettazione del nuovo stato che si trova a dover affrontare; nel difficile rapporto con la madre, poco paziente nei confronti di quella figlia così strana; nelle amicizie, che si allontanano e si avvicinano sulla base di bisogni personali, mettendo in discussione anche il concetto stesso del voler bene e del tenere a qualcuno. Eppure, in questo vortice di confusione in cui Louise viene risucchiata compare inaspettato e subito ben accolto l’amore: Thomas è diverso da tutti, normodotato ma affascinato da lei al punto di non essere interessato alla sua disabilità. O meglio, al punto di accoglierla, accettarla ancor prima di Louise stessa ed essere quindi pronto ad aiutarla in ogni modo. Così, Thomas le insegna il piacere fisico stimolando gli altri sensi, dalla vista al tatto fino al gusto e all’olfatto; le parla attraverso le onde che riverberano nell’acqua del bagno, utilizzando il potere della vibrazione del suono; la porta ad un concerto appositamente organizzato per lei, con quelle note che il suo orecchio lesionato è ancora in grado di cogliere; le parla lentamente e guardandola negli occhi, per permetterle di leggere le sue labbra.

“Ritrovavo la voce di Thomas solo nella vasca da bagno e nei mormorii che mi spingeva nell’orecchio. Io accostavo le orecchie al pelo dell’acqua e lui, dalla parte opposta della vasca, la bocca. Il riverbero del suono della sua bocca sull’acqua e le vibrazioni risuonavano nel mio timpano quasi morto. (…) Mi sentivo stalagmite intrappolata nelle reti del tempo. (…) In quel momento io ero la voce di Thomas e lui era la mia, e avevo l’impressione che niente sarebbe scomparso”.

Ciò che rende inoltre alquanto particolare questo memoir è l’utilizzo di una sorta di realismo magico per dare concretezza all’estraniamento di Louise. Le sue parole, le parti più inconsce di sé, prendono qui corpo attraverso le figure di un soldato, un cane e una botanica. Nessuno di loro esiste realmente, ma per la protagonista sono esseri veri, con cui condivide i suoi timori e che a volte la boicottano, mentre in altri casi la aiutano. Solo verso la fine del romanzo Louise si impegnerà per far scomparire queste allucinazioni, ritornando a un mondo che non sembra mai volerla del tutto. Falliscono infatti i suoi tentativi di socializzare con i colleghi, resta sola nelle notti in cui è circondata da conoscenti e amici che non riesce a sentire, non trova comprensione neppure tra i sordi, per i quali è soltanto una privilegiata, a cui è stato concesso quel poco di udito a loro negato del tutto. Non resta che l’impianto per uscire da questa stasi, che sempre più si trasforma in passività e depressione… ma occorre davvero molto coraggio per compiere un passo del genere.

Con uno stile narrativo contemporaneo, dai capitoli brevi e influenzato dal realismo magico misto al fantastico, senza una vera e propria trama per dare piuttosto spazio a momenti e scene ritagliate dalla quotidianità, Le meduse non hanno orecchie è un libro interessante che andrebbe letto fosse solo per l’apporto socialmente utile nei confronti delle malattie invisibili. Ma è anche una storia di speranza, di cambiamento alla base della vita, di accettazione e di rinascita.

“Non esiste nessuna verità, la realtà è instabile, ti ci devi adattare, Louise!” (…) “Non sappiamo nemmeno cosa sia la realtà. (…) Se non dico tutto, assolutamente tutto, mento. Ma dire tutto è impossibile, perfino nel caso di questa finestra, di questo frammento di realtà fisica. (…) La realtà è illimitata e se dimentico una sola cosa mento. (…) Per gli esseri umani questa realtà cambia in continuazione. (…) Non siamo già più quello che eravamo poco fa”.