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"Sono stato un numero. Alberto Sed racconta". Leggi un estratto del libro

Questo libro racconta la vita di Alberto Sed dalla nascita ai giorni nostri. Rimasto orfano di padre da bambino, Alberto è stato per anni in collegio. Le leggi razziali del 1938 gli hanno impedito di proseguire gli studi. Il 16 ottobre 1943 è sfuggito alla retata effettuata nel ghetto di Roma. E' stato catturato in seguito, insieme alla madre e alle sorelle Angelica, Fatina ed Emma. Dopo il transito da Fossoli, la famiglia è giunta ad Auschwitz su un carro bestiame. Emma e la madre, giudicate inabili al lavoro nella selezione condotta all'arrivo, sono finite subito nella camera a gas. Angelica, un mese prima della fine della guerra, è stata sbranata dai cani per il divertimento delle SS. Solo Fatina è tornata, segnata da ferite profonde: ha assistito alla fine di Angelica ed è stata sottoposta agli esperimenti del dottor Mengele.

Alberto è sopravvissuto a varie selezioni, alla fame, alle torture, all'inverno, alle marce della morte. Ha partecipato per un pezzo di pane ad incontri di pugilato fra prigionieri organizzati la domenica per un pubblico di SS con le loro donne. Dopo essere scampato a un bombardamento, è stato liberato a Dora nell'aprile 1945. Tornato a Roma, superate le difficoltà di reinserimento, ha iniziato a lavorare nel commercio dei metalli e si è sposato. Ha tre figli, sette nipoti e tre pronipoti.
"Sono stato un numero
Alberto Sed racconta"
Di Roberto Riccardi
Anno di edizione: 2009
Pagine: 166
Casa editrice: Giuntina
LEGGI UN ESTRATTO DEL CAPITOLO IV SU AFFARITALIANI.IT
Un solo comandamento: sopravvivere «Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte (…). Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui ho visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto».
Elie Wiesel
Chi scivola lungo un burrone teme il momento in cui si fermerà. Vede già, in fondo alla discesa, il dolore dell’impatto. Sul treno diretto al lager, per noi era l’opposto. Sulla soglia di un precipizio, chiedevamo solo che quel viaggio da incubo avesse fine. Poi il convoglio si arrestò. Non era una delle solite soste brevi, questa volta eravamo a destinazione. Che sollievo, pensavamo, ora potremo uscire. Ci daranno da mangiare, avremo una casa, un lavoro. Non potrà essere peggio di questo vagone infernale. I nostri volti, assurdamente pieni di speranza, dicevano che eravamo pronti a cominciare una nuova vita. Qualcuno sorrideva, perfino. Sulla banchina c’era un cartello indicatore, ci sforzammo di leggerlo. Finalmente qualcuno riuscì a decifrarlo: – C’è scritto… Auschwitz. Il nome non ci diceva nulla, e questo ci confortò: se non ne abbiamo mai sentito parlare – tentammo di rassicurarci – non può essere un luogo tanto terribile.
Oggi perfino i bambini conoscono quel nome. Emblema stesso dell’orrore, ha visto morire in pochi anni oltre un milione di persone, scomparse senza lasciare traccia. Ammassati, aspettammo che le porte del vagone fossero spiombate. Per una frazione di secondo, prima che ciò avvenisse, mi chiesi su cosa si sarebbero aperte. Noi eravamo lì, in attesa, ma quale realtà era in attesa di noi, fuori dal treno? Uscire all’aria aperta fu piacevole, respirammo a pieni polmoni, ma il sollievo durò solo un attimo. All’arrivo regnava un caos mai visto. Ogni giorno arrivavano convogli da ogni parte, venti o trenta vagoni alla volta. Subito ci divisero dalle donne e ci disposero per file.
Mi aggrappai alle parole degli altri, che ne sapevano quanto me: – Devono fare i controlli, – sentivo dire – per questo ci mettono così. Provai a illudermi che fosse una separazione momentanea, e poi saremmo tornati insieme, come a Roma e Fossoli. Ma rimasi solo, in mezzo a tanti volti sconosciuti, a guardare la mia famiglia che si allontanava. Sparì, inghiottita dalla marea umana del campo, insieme alla speranza. Attento a evitare le nerbate e i morsi dei cani, frastornato dalle urla, mi accorsi appena del momento in cui passavo davanti a un ufficiale medico. Fece un cenno con la mano, a indicarmi una direzione. A sinistra la vita, a destra la morte. Mi trovai nella fila dei salvati, senza capirlo. Con altri proseguii per Birkenau, uno dei tre campi principali del comprensorio di Auschwitz, regno di Rudolf Höss. Mi fecero spogliare, mi rasarono su tutto il corpo e mi portarono a fare la doccia.
Anche i miei abiti sparirono, lasciando il posto alla triste divisa dei prigionieri: giacca e pantaloni a strisce e zoccoli di legno. Sulla giacca era cucita la stella di David, la lettera I al centro indicava che ero italiano. Sul braccio mi venne tatuato un numero: A-5491, la mia nuova identità. Dopo la famiglia e i vestiti, ero io che sparivo. Diventavo un numero. Mi portarono in una baracca, un posto lugubre, sporco e affollato. Un tavolaccio di legno, da dividere con altri, d’ora in poi sarebbe stato il mio letto. Chissà per quanto. Quella notte non chiusi occhio, nonostante la stanchezza. Troppi pensieri, tutti cupi, e quando infine stavo per cedere al sonno suonò la sveglia. In un attimo la baracca si popolò di corpi rinsecchiti e volti impauriti, un formicaio frenetico, demente. Senza rendermene conto, mi trovai di nuovo in una fila. Raus, schnell, urlavano le guardie. Ci diedero una scodella di acqua e orzo, poi i capiblocco ci radunarono in squadre per assegnarci il lavoro. Sembrava una gara a chi urlava più forte, non capivo nulla. Per la lingua eravamo fra i più svantaggiati. Gli altri ebrei, polacchi, ungheresi, tedeschi, comunicavano in yiddish. Nel mio blocco, il 29, c’erano diversi italiani, ma ancora non lo sapevo. La seconda sera, in baracca, sentii parlare in francese. L’avevo studiato a scuola, un po’ lo capivo. Mi avvicinai speranzoso, finalmente avrei avuto qualche notizia. Dal gruppo di prigionieri, alcuni mi guardarono incuriositi:
– E tu chi sei, ragazzino?
– Mi chiamo Alberto Sed, vengo da Roma.
– Italiano, eh… Bella città Roma, non quanto Parigi. Sei solo? – No, sono venuto con la mia famiglia.
La domanda che seguì non la capii, ma la lingua non c’entrava. Mi chiesero se mia madre e le mie sorelle fossero persone abili, in grado di fare lavori pesanti. Per la mamma risposi di no, non aveva un fisico adatto. Il commento fu agghiacciante:
– Puoi scordartela. Vedi il fumo, lassù? Ecco dov’è, a quest’ora. Mi indicarono il camino. L’avevo già notato, fino a quel momento avevo pensato che servisse per riscaldarci. Uno dei francesi sorrise, ironico:
– Pensi che a quelli importi se abbiamo freddo? Tua madre è già passata di là, credimi. E anche le tue sorelle più piccole. Se non serviamo per lavorare, finiamo bruciati in un crematorio.
Ero sdegnato. Non sapevo ancora cosa accadesse nei lager e pensai che volessero prendermi in giro. Doveva essere così, per forza: approfittavano di me perché ero un ragazzo. Li lasciai e mi allontanai, senza capire il perché di scherzi tanto macabri. Mentre andavo, il mio sguardo si fermò sul fumo che usciva dal camino. Fu solo un attimo, ma un brivido mi corse lungo la schiena. Qualche giorno dopo, alle latrine, sentii imprecare in italiano. Sobbalzai, poi mi precipitai per individuare chi fosse. Era un militare di Frascati, si chiamava Tasca. Lo avevano messo a fare il guardiano dei cessi perché gli mancava un braccio, non poteva fare altro. Era stato ferito dagli inglesi, quando erano ancora loro i nemici. Gli chiesi come fare per avere notizie della mamma. Le parole dei francesi mi tormentavano, il dubbio si era ormai insinuato nella mia mente. Tasca mi confermò tutto. Ancora oggi ricordo parola per parola la lezione di sopravvivenza che si sentì in dovere di darmi: