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Ascolti tv, Alberto Contri: "Calo Sanremo? Obiezione pretestuosa. Lauro provocatore"
Alberto Contri (ex cda Rai) a tutto campo sul Festival di Sanremo 2021: da Achille Lauro ai Maneskin. L'intervista
A qualche giorno dalla conclusione del Festival di Sanremo riteniamo utile svolgere una analisi più meditata intervistando Alberto Contri, che oltre ad essere una figura di spicco del mondo della comunicazione italiana come professionista, saggista e docente universitario, è stato anche per 4 anni consigliere della Rai e per 5 anni amministratore delegato di Rainet, la società della RAI che lanciò nel 2006 per la prima volta su internet il Festival di Sanremo, ponendo le basi di Raiplay. Gran conoscitore di musica, musicista egli stesso, nel 1968 accompagnò al contrabbasso Louis Armstrong quando venne in Italia proprio per partecipare al Festival di Sanremo.
Che esperienza fu?
Si può ben immaginare che razza di esperienza sia stata per un jazzista suonare con colui che veniva definito universalmente “the king of jazz”. Allora militavo come bassista nella Bovisa New Orlèans Jazz Band, la più famosa band filologica italiana di quel genere musicale, che – secondo la tradizione di New Orlèans - aveva preso il nome dal quartiere in cui suonava. La band fu chiamata per accompagnare il grande Louis nella trasmissione “Quelli della domenica”. Di Armstrong mi colpirono la simpatia e l’umiltà. Arrivò allo Studio Uno della Fiera di Milano mentre noi ci stavamo scaldando: aprì subito la custodia, estrasse la cornetta, e si divertì a suonare con noi. Il giorno dopo avremmo potuto anche morire.
Nel 98 lei venne chiamato a far parte del CdA della Rai dove rimase per 4 anni impegnandosi molto per una tv pubblica di qualità.
È stata un’esperienza affascinante e non poco faticosa, anche perché la governance della RAI allora era molto diversa da quella di oggi: il CdA di fatto era un amministratore delegato collettivo, e quindi si poteva entrare nel merito di molte scelte operative, discutendo animatamente con il DG e con i colleghi. Insieme a Vittorio Emiliani, grandissimo esperto di musica, eravamo sempre in prima linea nel proporre e promuovere programmi culturali di carattere popolare, primo fra tutti la “Traviata a Parigi” (21% di share per un’opera lirica!), poi “All’opera” con Michele Lubrano, un programma tanto semplice quanto rivoluzionario, perché proponeva una sorta di Bignami delle opere liriche, sottotitolate per far capire cosa cantavano soprani e tenori. Il “Verdincanto” entrò addirittura nel Guinness dei Primati : era un programma di formazione a distanza per cori (gli spartiti erano già allora reperibili via internet) che si concluse con una gigantesca performance in contemporanea di settemila voci collegate da diverse città d’Italia. Quanto a Sanremo, erano gli anni in cui trionfavano Elisa, Enrico Ruggieri, Giorgia, gli Avion Travel, Antonella Ruggiero. Tra i presentatori e gli ospiti mi vengono in mente Fazio, Benigni, il Premio Nobel Dulbecco, Megan Gale, Laetitia Casta e Inès Sartre. Per dire però che sotto la guida di un CdA molto coeso sul fronte della qualità, si percepiva in tutta l’azienda una tensione verso un Servizio Pubblico d‘eccellenza. Anche se ovviamente non mancavano le discussioni soprattutto a causa delle ingerenze della politica.
Che ne pensa di tutta la vicenda del Festival in pieno Covid? Andava fatto? E fatto così?
Ritengo si potesse benissimo sospendere per un anno il solito format, sostituendolo con un programma che non soffrisse dell’assenza del pubblico (davvero tragicomici i palloni gonfiati in platea, frutto di una autolesionista, involontaria comicità) e degli applausi registrati. Si poteva benissimo fare il Festival dei Festival, facendo votare la canzone più gradita tra le vincitrici delle 71 edizioni, potendo così mandare in onda i grandi ospiti internazionali che si sono avvicendati sul palco del’Ariston, insieme a grandiosi momenti di spettacolo che molti giovani nemmeno conoscono.
Detto questo, visto che cosa fatta capo ha, direi che dal punto di vista della più grande industria mediatica del paese, il risultato ottenuto è stato un puro e semplice miracolo. Un miracolo tecnico/organizzativo che è stato pure in grado di garantire un ottimo rapporto costo/beneficio dal punto di vista economico. Assai meno dal punto di vista della qualità.
Molti hanno fatto notare il calo degli ascolti…
Sinceramente questa mi è parsa un’obiezione pretestuosa: gli ascolti degli eventi televisivi di spettacolo, durante la pandemia sono diminuiti in tutto il mondo, quindi non mi pare un argomento di rilievo. Con il senno di poi si potevano fare scelte più assennate: innanzitutto molte meno canzoni. Non ho mai capito perché debbano essere così tante, visto che l’attuale mercato alla fine è in grado di premiarne pochissime. Ci vedo dietro una ottusa insistenza delle case discografiche, oltre il problema di una gestione tutta esterna alla RAI, in mano praticamente ad un solo agente. Un fatto semplicemente inaudito dato che si parla di Servizio Pubblico. So che il Consigliere della RAI Giampaolo Rossi (era con me a Rainet come presidente della piccola ma brillante società partecipata che ha saputo costruire con molto anticipo basi dell’attuale Raiplay) si sta battendo da tempo nel chiedere di porre fine a questa grave stortura.
Una stortura che incide anche sulle scelte qualitative e sui contenuti…
Ah, certamente. Ma la cui responsabilità non può non ricadere anche sul direttore della rete ammiraglia, altrimenti cosa ci sta a fare? Il dottor Coletta nelle conferenze stampa ha parlato di questo Festival come di grande esempio di Servizio Pubblico, giustificando il calo di ascolti con citazioni di Freud (ma si puo?). Quando in realtà è stato l’opposto.
A cosa si riferisce?
Mi riferisco per prima cosa alla incredibile scelta di proporre come momento clou di ogni serata gli squallidi e blasfemi quadri di un modesto provocatore come Achille Lauro. Al quale non è lecito mettere a disposizione le frequenze della TV di Stato per offendere i sentimenti religiosi di milioni di persone. Oltre al buon gusto, che un amante del trash non frequenta per definizione. Ai miei tempi venne ospite al Festival il discusso Eminem, ma si riuscì a contenere la sua esibizione nei giusti limiti. Qui invece siamo alla evidente totale condivisione di una visione del mondo da parte di una direzione totalmente in linea con le tendenze globali in atto, che ritengo gravissime: un attacco concentrico e quotidiano contro il concetto dell’identità. È evidente che la maggior parte delle canzoni e dei cantanti selezionati hanno proposto lo stesso manifesto gender fluid che ritroviamo diffuso sempre più spesso nella programmazione della RAI. E non solo.
Un Servizio Pubblico dovrebbe censurare questa visione del mondo?
Certamente no, ma altrettanto certamente non la dovrebbe proporre come una scelta d’elezione. Che messaggio dà poi il bacio che Lauro ha scoccato lingua in bocca al suo chitarrista, sposato con una donna? Semplicemente che oramai “vale tutto”. Che non esistono norme, non esiste deontologia, non esiste etica né responsabilità di coppia. “Sono sessualmente tutto. Genericamente niente. Esistere è essere. Essere è diritto di ognuno. Dio benedica chi è, Dio benedica chi se ne frega”. Il manifesto declamato da Lauro a più riprese invoca l’ambiguità mentre sfotte i simboli religiosi, con la penosa complicità di Fiorello. Non può non colpire che in RAI qualcuno abbia esultato perché il picco di tweet sia stato raggiunto con la foto di quel bacio. Che sciagurati, me lo si lasci dire: il picco di share sui social network conta assai di più di un messaggio così distruttivo? Non a caso anche i Maneskin si dichiarano fluidamente disponibili ad ogni opzione sessuale, e lo fanno anche con il loro look. E alla fine si comprende che tutto si tiene.
Non ha timore di essere dichiarato omofobo con queste osservazioni?
Lo faranno certamente. Ma à venuto il momento di gridare chiaro e forte che un conto è promuovere il doveroso rispetto di ogni opzione sessuale, un conto è aggredire quotidianamente con tutta la potenza del Servizio Pubblico il concetto di famiglia tradizionale, che è poi l’unica in grado di mettere al mondo i figli secondo le leggi stabilite dalla natura per la prosecuzione della specie. Avendo lavorato in multinazionali della comunicazione fino ad una decina di anni fa e tenendo ancora dei rapporti oggi con colleghi più giovani, ho visto e vedo con i miei occhi gli effetti dell’ascesa al potere di una particolare casta di omosessuali: una volta arrivati ai vertici, invece di avere per gli altri lo stesso rispetto che hanno preteso e richiesto per sé fin dai tempi dei moti di Stonewall, hanno cominciato a imporre senza mezzi termini una rigida forma di dittatura culturale. Nel mio ultimo saggio “La sindrome del criceto” (Ed. La Vela) riporto un brano di un editoriale dell’Economist, che è un giornale notoriamente progressista: “Qualsiasi opinione contraria all’ortodossia libertaria si scontra con una forma di tolleranza zero che etichetta chi la esprime come razzista, omofobo o transfobico. I gruppi di minoranza stanno imponendo i loro valori e i loro stili di vita a tutti gli altri”. Vogliamo provare a pensare cosa sarebbe successo se un simil-Lauro o lo stesso Fiorello avessero sfottuto una delle tante checche che si affacciano dai teleschermi? (Chiariamo bene: il termine “checca” sta all’omosessuale come il termine “cafone” sta all’eterosessuale. È un giudizio estetico).
In proposito ricordiamo cosa scrisse sui social il discografico Alberto Salerno, marito di Mara Maionchi: “Ma com’è che su RaiUno ci sono un sacco di gay? Che è cambiato qualcosa? E poi dicono che la lobby gay non esiste”.
Vero. E pensare che proprio il direttore Coletta, sempre in una delle conferenze stampa in cui gli piace allargarsi, aveva detto: “Tutto vorrei, tranne che leggere ‘GayUno’ o’RaiUno gay’. Basta piccolezze, bassezze. Di fronte alle persone non mi chiedo mai con chi vanno a letto… io mi occuperei piuttosto del livello culturale delle persone, giudicherei i conduttori per la loro professionalità”. Magari! Perchè c’è qualcosa che non torna, ad ascoltare Maurizio Coruzzi, alias Platinette: “Non mi piace la lamentela del mondo omosessuale quando continua a dire che è vessato ed emarginato. Non è più così. La visibilità degli omosessuali non è mai stata così alta come in questo momento e a volte, se posso, fin troppo”. Ci sono diversi conduttori il cui spessore professionale sfugge a chi conosce il mestiere, mentre è fin troppo chiara la loro visione del mondo (diciamo così).
Tornando al Festival 2021, da musicista, cosa ne pensa?
Penso che la perdita dell’identità va a braccetto con l’ignoranza. Cito Francesco Prisco che ha scritto dei Maneskin su Il Sole 24 Ore: “Ha trionfato l’hardrocckino”. I blog dei musicisti abbondano di sentenze come questa: “Quando il surrogato del rock vince a Sanremo abbiamo detto tutto”. Un noto arrangiatore come Marcello Sirignano ha scritto su Facebook: “Il brano dei Maneskin mi piace molto. Però io un secondo accordo l’avrei messo”. In RAI si entusiasmano perché ritengono di avere aperto RaiUno ai giovani. Ma con quale proposta culturale? Al massimo con dei surrogati. È anche responsabilità del Servizio Pubblico se oggi ci sono sempre più persone – tanto per fare un esempio - che ritengono che Allevi sia un musicista classico. Ma c’è anche un’altra questione, che ritengo di carattere culturale e antropologico ad un tempo. Non si può negare che il cast complessivo del Festival comprendesse un bel numero di ominicchi con voci asessuate (e inesistenti senza autotune), o di giovanotti solo capaci di imitare o tentare di riproporre senza vergogna performance di grandi artisti e registi del passato, come ad esempio David Bowie o Brian De Palma. Prima di parlare degli “innovativi” quadri di Lauro, sarebbe meglio dare un’occhiata al Fantasma del palcoscenico (1974) per capire che tutto era stato già fatto molto meglio mezzo secolo fa, ma senza insultare nessuno e con grandissima genialità musicale e spettacolare. Chi c’era ad animare la settantunesima edizione di Sanremo? Un gruppetto di attempati sopravvissuti ancora in grado di tenere botta, in mezzo ad un più nutrito gruppo di debosciati che credono di essere moderni e originali solo perchè aspirano ad essere gender fluid, e se la prendono con la religione (ma solo quella cattolica, eh, altrimenti vuoi vedere che guancia porgerebbe loro il mondo islamico, come si è ben visto in Francia). Nel complesso, sono apparse molto meglio le donne che ancora sono tali perché sicure della propria identità, come Beatrice Venezi. Diversi degli uomini che abbiamo visto sembravano invece appartenere in larga parte ad una poltiglia indefinita, mentalmente e pure fisicamente. Credo sia un’osservazione oggettiva.
Il tema dell’identità per lei è molto rilevante.
Assolutamente. L’identità è un fattore chiave: di una persona, di un popolo, di una nazione, persino di una azienda. Senza storia, senza radici, senza tradizione, senza fedeltà al proprio DNA non c’è più nulla. Non a caso la brand identity è un argomento di studio fondamentale nel campo del marketing. Ma oggi, in nome di questo sciagurato politically correct di cui ha parlato l’Economist definendolo “La dittatura della tolleranza”, siamo sotto l’attacco concentrico di multinazionali del largo consumo, dei GAFA e della consulenza, che salgono con orgoglio sul carro dei Gay Pride e con la scusa della parità di genere, stanno invece imponendo una distorta visione del mondo, che mira innanzitutto all’annullamento dell’identità sessuale, e poi di quella culturale e infine del senso critico. Per cui non esiste più nulla di bello, giusto e vero, perché tutto diventa relativo.
In proposito, mi viene in mente che in una riunione del CdA RAI del 2000, fu inserito su mia proposta al primo punto della Mission dell’azienda di servizio pubblico questo compito: “Elevare il senso critico del paese con l’informazione, lo spettacolo e la cultura”. Il Festival di Sanremo 2021 lo ha fatto?
Un’ultima domanda: se le forze in campo contro l’identità sono quelle citate, la battaglia per difenderla sembra persa in partenza.
Lo pensavo anch’io. Poi sono rimasto sorpreso dall’improvviso esplodere di macroscopiche contraddizioni. Sono proprio le donne e le associazioni di lesbiche a protestare perché gli atleti maschi che si autodichiarano femmine vincono facile in ogni competizione, togliendo alle donne il diritto di essere tali: “La partecipazione di uomini che hanno deciso di essere donne alle gare femminili è folle. È un inganno ed è ingiusto per le donne che devono competere con persone che, biologicamente, sono ancora uomini” ha dichiarato di recente la tennista lesbica Martina Navratilova. Ovunque ci sono segni di risveglio di gruppi sempre più numerosi di cittadini e consumatori contro una casta che impone vere e proprie stupidaggini come quella sancita dalla British Medical Association. “Non si potrà più chiamare futura mamma una donna incinta per rispetto degli uomini intersex o trans che potrebbero essere gravidi. O come quella della Procter & Gamble che ha rimosso il simbolo di Venere dagli involucri di assorbenti igienici a marchio Always “per includere i clienti che mestruano ma non si identificano come donne”. Molte associazioni di genitori stanno protestando con la Disney che ha deciso di rimuovere dagli account dei bambini fino a 7 anni tre dei cartoon più amati dall’infanzia come Peter Pan, gli Aristogatti e Dumbo, “colpevoli di veicolare stereotipi sbagliati con messaggi dannosi”. Era ora. La controrivoluzione del buon senso è cominciata.