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Come far pagare tasse eque ai giganti del Web...

Vincenzo Caccioppoli

I grandi colossi del web, che continuano a pagare cifre irrisorie al fisco

Come far pagare tasse eque ai giganti del Web?

Mentre il nostro paese è alle prese con l’approvazione della manovra finanziaria, che dovrebbe avere l’ennesimo aumento delle tasse, ancora troppo poco si fa per cercare di colpire i grandi colossi del web, che continuano a pagare cifre irrisorie al fisco, se rapportate ai loro mostruosi fatturati. La somma versata al fisco italiano, infatti, nel 2018 è stata di 64 milioni, in aumento rispetto ai 59 milioni dell'anno prima. In più hanno pagato sanzioni per complessivi 39 milioni di euro (73 mln nel 2017).

E’ quanto emerso dall’indagine condotta dall’Area Studi di Mediobanca che ha messo sotto la lente le prime 25 società al mondo del settore, delle quali 14 con sede operativa negli Usa, 7 in Cina, 2 in Giappone e solamente 2 in Euro, entrambi in Germania. Considerando che il fatturato di dette imprese nel complesso arriva alla cifra di 2,4 miliardi di euro, si capisce come effettivamente esista uno squilibrio che è assolutamente intollerabile, rispetto alle tasse che ogni azienda del nostro paese deve pagare al fisco italiano.

La questione è assai intricata e tutti gli Stati Europei stanno lavorando ad una cosiddetta web tax che colpisca i giganti del web là dove gli utili vengono generati, e non dove invece è ubicata la loro sede fiscale. Ma la strada è ancora lunga e tortuosa, come spesso accade quando si deve prendere decisioni a livello comunitario. All’Ecofin di marzo scorso si è consumato infatti l’ennesimo fallimento della trattativa per giungere a una tassa europea, a causa dell’opposizione di Irlanda, Svezia, Danimarca e Finlandia. I ministri dell’Economia dell’Unione hanno quindi deciso di rinviare il nodo in sede Ocse. L’organizzazione internazionale si è data come deadline il 2020 per giungere a una proposta condivisa e fare pagare le tasse ai colossi del web là dove generano fatturati e utile.

L’Italia da questo punto di vista per una volta si dimostra essere uno dei paesi capofila, insieme alla Francia, sulla introduzione di correttivi a questo stato di cose. Secondo quanto si apprende dalla manovra finanziaria giallorossa  per il 2020, sembra che la web tax, varata dallo scorso governo, possa finalmente vedere la luce. Il ministro Gualtieri ha infatti promesso che da gennaio 2020 la digital tax sarà in vigore. Si tratta di una tassa con una aliquota unica al 3% sui ricavi delle imprese con oltre 750 milioni di fatturato di cui almeno 5,5 derivanti da prodotti online. Colpisce quindi non solo i colossi come Amazon e Google, ma anche le vendite online, la pubblicità, la trasmissione dati e le piattaforme digitali, quindi anche le imprese editoriali e alcune partecipate pubbliche. La web tax modifica quella già introdotta dall’ultima legge di Bilancio del Governo Gentiloni che prevedeva una imposta sulle transazioni finanziarie che fissava un’aliquota al 6%, anch’essa mai entrata in vigore per la mancanza di decreti attuativi. L’Ocse dal canto suo ha reso nota una sua prima proposta in questo senso, che si basa sul principio secondo cui gli stati hanno il diritto di tassare una quota degli utili globali di multinazionali con alti ritorni anche se tali utili sono registrati in altre giurisdizioni. E anche se in quello stato non hanno alcuna sede fisica.

L’obiettivo è far pagare ai giganti del web come Google e Amazon, ma anche ai grandi marchi e gruppi del lusso, una quota di tasse in linea con gli ingenti guadagni, senza più lo scudo di accordi con singoli stati e trasferimenti di asset e utili in filiali appositamente registrate in giurisdizioni dove il regime fiscale è estremamente agevolato. La base per calcolare l’aliquota resta il fatturato generato dalla data azienda nel territorio del singolo Stato. Ma a parte il fatto che questa soluzione potrebbe prestarsi comunque a controversie legali da parte dei colossi del web, sulla base del principio di non residenza fiscale della società, le aliquote stabilite dalla web tax italiana per esempio sono comunque molto più basse di qualsiasi altra aliquota che una azienda italiana è costretta a pagare.  «L’aliquota unica al 3% sui colossi del web è ridicola. È un’idiozia. È una vergogna» ha detto seccamente l’onorevole Giorgia Meloni ieri, analizzando proprio i dati sulle tasse pagate nel 2018 da Amazon & C. La leader di Fratelli d’Italia però non si limita a criticare la web tax che dovrebbe vedere la luce fra un mese, ma avanza una sua proposta per mettere un freno alle elusioni fiscali in questo ambito: “Se si vogliono tassare adeguatamente i giganti di internet e combattere l’elusione fiscale, l’unica strada percorribile è quella di imporre una tassazione proporzionata al loro volume d’affari”. Un volume – precisa la leader di Fratelli d’Italia- certificato dal “numero di accessi sulle loro piattaforme”. In effetti questa soluzione potrebbe anche avere un senso, considerando che proprio dagli indirizzi ip e dagli accessi che vengono fatti ai vari siti, le aziende web ricevono quella mole di dati, da cui poi ricavare i loro consistenti introiti pubblicitari. E comunque da qualche parte bisogna pure cominciare per ridare un minimo di equità ad una materia come quella fiscale, da sempre nell’occhio del ciclone, proprio perché spesso viene accusato di essere forte con i deboli ( leggi piccoli evasori ) e debole con i forti ( grandi evasori o multinazionali).

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