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Digital tax, ecco perché non servirà a nulla

di Paolo Fiore

La digital tax “avrà risultati solo di facciata” perché destinata a soccombere davanti “ai trattati bilaterali contro le doppie imposizioni”. Lo afferma Dario Stevanato, professore di diritto tributario dell'Università di Trieste e tra i gli autori di giustiziafiscale.com. “Non si può risolvere un problema di fiscalità internazionale esclusivamente attraverso soluzioni domestiche, poiché queste rischiano di rivelarsi un'arma spuntata”.

Fino a meno di due anni fa, a credere che le “soluzioni domestiche” fossero inefficaci era anche l'attuale premier. A dire “risolviamo in Europa o andiamo avanti da soli” non era Matteo Renzi ma Francesco Boccia. Compagno di partito ma lettiano di ferro, Boccia venne sbertucciato per la sua web tax. Nel digitale, affermava il non ancora presidente del Consiglio “siamo passati dalla nuvola digitale alla nuvola nera di Fantozzi”.

Arrivato al governo, Renzi mantenne la parola e bocciò la legge (con tanto di tweet celebrativo). Non perché debole dal punto di vista normativo (il premier non si è mai inoltrato tra i commi) ma perché i temi "della web tax vanno posti in Europa" altrimenti "rischiamo di dare l'immagine di un paese che rifiuta l'innovazione".

Passa un anno e mezzo e tutto cambia: “Abbiamo aspettato per due anni la legge europea, facciamo gli ultimi sei mesi attendendo un provvedimento, ma dal 2017 immaginiamo una digital tax”. Parola di Renzi.

La web tax di Boccia ha un impianto diverso rispetto al disegno di legge Quintarelli-Sottanelli, testo sul quale dovrebbe basarsi la nuova digital tax. “La proposta cui allude Renzi prevede un intervento sul cosiddetto commercio elettronico diretto, cioè sulle transazioni concluse direttamente on-line con "consegna" dei beni immateriali (software, e-book, brani musicali, etc.) direttamente al cliente finale”, spiega Dario Stevanato. L'obiettivo è tassare i profitti realizzati da società con sede all'estero che non hanno una “stabile organizzazione” in Italia.

Al di là delle differenze, resta il nodo dell'applicabilità a livello internazionale. La norma mira proprio a ridefinire il concetto di “stabile organizzazione” in moda da includere chiunque abbia in Italia una presenza non fisica ma digitale. E ipotizza una ritenuta (quindi non una tassa in senso stretto) del 25 per cento sui pagamenti, cioè sui ricavi lordi, realizzati in Italia dall'impresa estera.

“Peccato che questo impianto normativo pretenda di ridefinire unilateralmente un concetto, quello di stabile organizzazione, già definito dai numerosi trattati bilaterali conclusi dall'Italia”, afferma Stevanato. Quindi? Tanto rumore per nulla? La proposta è, secondo il tributarista, “velleitaria e sbagliata: i trattati internazionali prevalgono sulle norme interne, laddove queste siano meno favorevoli ai contribuenti. Dunque una modifica unilaterale del concetto di stabile organizzazione, per norma interna, si rivelerebbe del tutto inefficace”.

I casi in cui la digital tax sarebbe applicabili sarebbe “residuali” e riguarderebbero solo quei pochi Paesi con i quali non sono stati firmati dei trattati bilaterali. Così concepita, la legge darebbe “risultati solo apparenti, di facciata”. Anche Renzi ha ipotizzato un gettito ridotto. Ma il risultato rischia di essere nullo. “Una società estera avrebbe buon gioco nell'opporsi alle pretese dell'Erario”. Non solo. In mezzo ai ricorsi delle multinazionali potrebbero finire anche le banche, incaricate – secondo la legge Quintarelli - di effettuare il versamento delle ritenute. Una situazione che Stevanato definisce con un eufemismo “non propriamente ideale”.

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