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Domani, la Repubblica, il Fatto: polemiche. Ma maturano cambiamenti epocali

L'opinione di Beppe Lopez

Il canto del cigno di De Benedetti, le ruvidezze di Elkann, i riferimenti storici di Molinari, le ambizioni di Giannini, l’avventura di Stefano Feltri, l’operazione-consolidamento di Travaglio… I temi importanti, in questo tornante della storia dei quotidiani italiani di area progressista, diciamo così, non si esauriscono con sei nomi: si pensi solo al Corriere della Sera, al Manifesto e alle forti interferenze reciproche con l’informazione televisiva pubblica e privata (dove in particolare Umberto Cairo vigila e tiene a freno, a stento, una forte capacità di iniziativa).

Ma indubbiamente, sono tre le domande che ora vanno per la maggiore. 1) Quale giornale ha in mente Carlo De Benedetti e quale Domani riusciranno concretamente a fare lui e la squadra di giornalisti guidati dal giovane Stefano Feltri? 2) Quale Repubblica, alla fine, starà in campo, dopo il traumatico cambio d’editore, lo sbrigativo cambio di direttore, l’attuale stato di frustrazione e di disorientamento della redazione e soprattutto dopo le novità e le ristrutturazioni che verranno, in conseguenza anche della strategia editoriale – tutta da decifrare e probabilmente in gran parte da definire – di un gruppo cui fanno capo, insieme a molto altro, tre testate quotidiane di storica rilevanza e tredici quotidiani locali? 3) Riuscirà Il Fatto  Quotidiano di Marco Travaglio, al di là della (poco) rinnovata veste grafica e dell’arrivo di Gad Lerner, a cogliere quest’occasione storica per rosicchiare “da sinistra” posizioni di mercato alla grande testata fondata da Scalfari?

E’ significativo ciò che viene immediatamente di rilevare a proposito di quella che dovrebbe essere la novità assoluta, Domani. Ricordate i giornali ottocenteschi che nascevano “come volontà di espressione del libero pensiero”? Bene, è proprio questo che Carlo De Benedetti ha in mente e proprio così parla della sua nuova creatura, il quotidiano mirato nelle sue intenzioni a dar fastidio in una qualche misura a Repubblica, e comunque a prefigurare il giornale di qualità del futuro (in particolare con la generosa idea del passaggio della proprietà in capo a una Fondazione). Certo, il giovane Stefano Feltri si impegna, più professionalmente, a “offrire una informazione affidabile, onesta e rigorosa”, ma anche lui viene da un giornalismo di opinione (Il Foglio, Il Riformista, Il Fatto): quello che ha in mente e presumibilmente concordato con De Benedetti è un giornale “fondato su inchieste, analisi e idee”. Insomma, il giornale – e lo dice anche Luigi Zanda, politico navigato, messo da De Benedetti a presiedere il consiglio di amministrazione della nuova azienda editoriale – servirà a “riflettere su quel che accadrà Domani”, ad “alimentare il dibattito sul futuro del Paese e dell’Europa”, per “informare, ma ancora di più per interpretare le notizie”.

E’ di questo che ha bisogno il Paese? Espressioni del libero pensiero e nuovi centri giornalistici di analisi e idee, di alimentazione del dibattito e di interpretazione delle notizie? Soprattutto: è con un giornale così concepito che il progetto debenedettiano potrà farsi largo in un mercato peraltro sempre più asfittico, rubacchiando lettori qui e là (Repubblica, Fatto, Corriere, Manifesto…) o addirittura richiamando nuove fasce di lettori o comunque vendendo tante copie e acquisendo tanta pubblicità da mettere radici in quel mercato?

E l’editore di Repubblica – al di là delle ventilate nuove fughe di “firme” (per quello e per quanto esse possano valere in termini di spostamenti di copie, più illusori che reali), delle polemiche e degli scontri, interni ed esterni alla redazione – come intende affrontare ristrutturazioni e riprofilamenti organizzativi? Quello che sembra mancare ai neo-titolari piemontesi – o comunque quello che essi non hanno sinora nemmeno lasciato intravedere – è il progetto. Solo tagli? Come organizzare, a Repubblica, l’azienda/redazione che lavori unitariamente (o no?) sul doppio fronte cartaceo e digitale? Ma soprattutto: cosa si intende fare sulla questione delle questioni: la coesistenza di sedici testate, per tacere del resto? E le duplicazioni? Non si pone, già oggi, un problema urgente di concentrazione proprietaria, in una regione, anzi in due, meglio in tre, dove a una stessa azienda editoriale fanno capo la fattura e il controllo della più gran parte delle copie vendute e delle informazioni, nazionali e locali? Cosa si fa, in Piemonte? Repubblica abbandona la piazza, chiudendo almeno la redazione locale? E in Liguria, dove adesso la Gedi è presente con ben tre quotidiani? E complessivamente, a Bari. Bologna, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Parma, Roma, ecc.?

La sensazione è che ciò di cui si è giustamente parlato sinora – appunto, il canto del cigno di De Benedetti, le ruvidezze di Elkann, i riferimenti storici di Molinari, le ambizioni di Giannini, l’avventura di Stefano Feltri e l’operazione-consolidamento di Travaglio – sia solo l’antipasto delle questioni ben più grosse, epocali, che presto matureranno. Tanto per cominciare, l’inutile, dannosa dicotomia tra “ideologi” del digitale e “nostalgici” del cartaceo. Poi la storica, artificiosa e corruttrice sovrabbondanza tutta italiana, nel settore dei quotidiani, delle testate nazionali d’opinione e di parte, autoreferenziali e sempre più lontani dalla vita, dai problemi, dagli interessi e dallo stesso linguaggio dei cittadini, ai danni di un giornalismo di servizio, di informazioni, fortemente radicato sul territorio.

E che ci promette ora, con pur autentica generosità, De Benedetti? L’ennesimo giornale nazionale di opinione. In un Paese sempre meno descritto, con una opinione pubblica costruita dall’alto da “grandi firme” più o meno illuminate o a contratto, e annichilita da scontri di opinioni (di parte o di partito preso), da talkshow con ruoli fissi pro/contro e da una montagna di fake news.