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Gianni Minà e quelle facce piene di pugni, l'ultima chiacchierata con il giornalista
L'ultima intervista a Gianni Minà tratta da libro di Virginia Perini e Federica Guglielmini "A corta distanza"
Un “incontro” fuori dal comune In quei giorni il pugile si trovava a Roma per impegni “giornalistici” e grazie a Gianni Minà che aveva contatti con il segretario particolare del Santo Padre, Stanisław Dziwisz, è stato recapitato al Papa il messaggio che Alì desiderava conoscerlo. L’incontro fu organizzato: "Giovanni Paolo II volle prima ricevere da solo Muhammad Alì - scrive Minà ne Il mio Alì (Rizzoli, 2014). Dopo venti minuti di colloquio privato, il Papa incontrò anche Veronica e tutti noi del seguito». Continua: «Fu sorprendente sentire come Karol Wojtyla conoscesse bene la storia sportiva e umana del più grande pugile dei tempi moderni: la sua idiosincrasia, per esempio, verso gli avversari più piccoli di statura come Joe Frazier (che passavano sotto i suoi colpi e lo picchiavano duro al bersaglio grosso), ma anche il suo instancabile impegno per i diritti civili delle minoranze. Alla fine il Papa regalò a Muhammad la medaglia del suo pontificato, il riconoscimento massimo per un ospite. Il campione, con la disarmante innocenza dei pugili, risposte tirando fuori dalla tasca una sua fotografia in posa e dedicandola e autografandola a Sua Santità. In un’epoca di notizie amare, di insanabili incomprensioni e di atteggiamenti arroganti, quell’incontro toccante in una mattina di maggio dell’82 è per me un ricordo di grande commozione, una lezione umana impartita da due persone che, pur con incidenza diversa nella società in cui viviamo, sono state grandi per davvero". |
Ad ogni modo, venne prima l’amore per Alì e poi, di conseguenza, la passione per quello sport antico e... ma tutto molti anni prima di quella cena indimenticabile: "Cassius Clay, allora si chiamava ancora così, mi ha conquistato alle Olimpiadi di Roma del 1960, dove vinse nella categoria medio massimi ed aveva appena 18 anni. Poi tutto è stato conseguente. Negli anni difficili della sua squalifica per la scelta di rifiutare il servizio militare, la stima per lui si rafforzò soprattutto quando prese posizione precisa contro la guerra in Vietnam. Quella obiezione di coscienza gli costò alcuni giorni di prigione e quasi tre anni di lontananza dal ring – si ferma, sospira. Non conosco pugili che abbiano rischiato così, anni di esclusione, secondo la linea scelta dai Black Muslim".
E prosegue: "È il rappresentante di una minoranza oppressa che quasi sempre non si è tirato indietro se bisognava farlo. Le faccio un esempio: una volta venne a Milano, su mio invito per il Telethon che quell’anno presentavo. Era già affetto dal morbo di Parkinson che gli impediva la parola fluida. Mentre eravamo a pranzo, chiese con discrezione se esisteva una moschea in quella città per onorare il suo Dio. Fu l’unica volta che chiese aiuto, in ossequio alla sua fede. Lo feci accompagnare dal nostro traduttore, Paolo Tufano, che al suo ritorno ci raccontò, incredulo, di aver tradotto ai fedeli un sermone di Mohammad Alì che, con immensa difficoltà, aveva tenuto per quell’occasione".
Gianni Minà ha dedicato un libro intero a quello che senza girarci troppo intorno è considerato da lui non solo il più straordinario pugile della storia, ma un personaggio di carisma irraggiungibile che ha lasciato un solco indelebile nello scorso secolo con scelte quasi sempre controcorrente, da quella di mutare il nome da Cassius Clay in Muhammad Alì dopo essersi convertito all’Islam al rifiuto di combattere in Vietnam, fino al giorno in cui, già fragile e tormentato dal morbo di Parkinson, commosse il mondo intero accendendo la fiaccola olimpica ad Atlanta. Ne “Il mio Alì” il giornalista ha raccolto i suoi articoli sul personaggio dal 1971 a oggi, scritti a caldo nelle notti gloriose di Las Vegas, Kinshasa, Manila oppure frutto di interviste esclusive.
"All’inizio seguivo la boxe per il Tuttosport di Torino. Frequentavo le palestre di pugilato di Roma perché Antonio Ghirelli, il mio maestro e allora direttore di quella testata, mi aveva incaricato di imparare le tecniche e i modi del pugilato in una città come Roma dove è forte la tradizione dello sport dei pugni". Antonio Ghirelli fu uno dei grandi innovatori della “narrazione sportiva”. Sul finire degli anni ‘50, chiamato a sorpresa, lui meridionale, a dirigere il Tuttosport di Torino, crebbe una vera generazione di giornalisti (Ormezzano, Tosatti, Baretti ed altri oltre a Minà) nel cui stile, il racconto, non poteva essere solo tecnico, specialistico, ma anche interessato al contesto, al sociale, al “colore”.
Inevitabilmente questa tendenza divenne l’espressione di una scuola opposta a quella di Gianni Brera, un fuoriclasse, convinto assertore, però, di teorie secondo le quali il nostro popolo, da secoli malnutrito, non potesse gareggiare alla pari con gli atleti del Nord del mondo e che quindi le languide e sentimentali cronache dello sport dei giornalisti di “scuola napoletana”, soddisfacessero solo le esigenze romantiche del lettore. "Quello che ho imparato subito ad amare del pugilato è la lealtà che quasi tutti i pugili, anche quelli più difficili, coltivano con grande orgoglio. Se un pugile è un vero pugile, non scivolerà sulla disonestà di un colpo".
La sensazione, parlando con lui, è quella di guardare un film con il tasto del fast-forward schiacciato, il film della storia di un secolo, letto e interpretato in chiave sportiva ma non solo, anche musicale, cinematografica, letteraria. Muhammad Ali, Jorge Amado, i Beatles, Fidel Castro, Adriano Celentano. E poi ancora Robert De Niro, Gabriel García Márquez, Dizzy Gillespie, Sergio Leone; poi Diego Armando Maradona, Rigoberta Menchú, Pietro Mennea, Mina, Gianni Morandi, David Alfaro Siqueiros, Tommie Smith, Massimo Troisi, Emil Zátopek.