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Gianni Minà e quelle facce piene di pugni, l'ultima chiacchierata con il giornalista
L'ultima intervista a Gianni Minà tratta da libro di Virginia Perini e Federica Guglielmini "A corta distanza"
«Nella mia vita, è inevitabile, ho incontrato tantissime persone. Alcuni ho cercato di raccontarli nel libro che è uscito per la Minimum Fax “Storia di un boxeur latino”». Poi svela un piccolo segreto: «Per il titolo ho preso in prestito una dedica che mi aveva fatto, alcuni anni fa, il mio amico Paolo Conte ad un suo concerto».
Di nome in nome prendono forma di romanzo le avventure di un ragazzo partito da un quartiere di Torino, in calzoncini corti, da una famiglia di origine siciliana, da un maestro in sedia a rotelle. «Storia di un boxeur latino non è un’autobiografia. È una dichiarazione d’amore alla vita, alla musica, allo sport e agli ideali d’altri tempi. È la storia di quando ci si batteva contro le ingiustizie perché l’ingiustizia contro cui battersi, in ogni tempo e luogo, è sempre la stessa. La storia di quando si poteva giocarsela finché si aveva fiato. E i desideri, quelli veri, erano il tema della vita».
Anno dopo anno Gianni Minà ha imparato a conoscere i pugili con i loro punti di forza o i punti deboli, le strategie o la tecnica fino a diventare un massimo esperto pur non avendo combattuto. E per l’altro suo “idolo” "dopo Mohammad Alì" tiene a precisare, la non-strategia era tutto: "Ho adorato anche Rocky Marciano, l’unico peso massimo della storia a ritirarsi imbattuto, difendendo il titolo sei volte. Quando per “La storia della boxe” lo intervistai per la Rai, parlando di tecnica, mi disse: “Io non ho strategie, mi faccio picchiare dall’avversario per quasi tutte le riprese. Poi, quando si stanca, io lo faccio fuori con due colpi. Ognuno ha il suo stile, io non ho paura del dolore fisico, lo posso sopportare. Quello psicologico, però, proprio no”».
Ma è vero che stiamo vivendo un momento di crisi per il pugilato? Con il pensiero che vola agli anni d’oro che ha potuto vivere intensamente fino a farne oggi un bagaglio di inestimabile valore, Gianni Minà risponde senza pensarci troppo: «Assolutamente, perché sono nate altre discipline che lo hanno scalzato, in più è cambiata anche la società. Il programma tv a puntate “Storia della boxe - Facce piene di pugni” nacque proprio perché già all’epoca nessuno aveva “cantato” questo sport in maniera organica. Nello scegliere i pugili da intervistare mi aiutò il mitico Roberto Fazi, ex direttore di banca e poi direttore della rivista “Boxe Ring”. Roberto era uno dei più importanti conoscitori di questa arte. Montammo circa 14 puntate, se mi ricordo. Poi la Rai stoppò la produzione perché erano scaduti i diritti televisivi dei match storici. L’Azienda dovrebbe avere ancora in magazzino le interviste dei pugili da me intervistati e mai montate. A meno che non le abbiano buttate...".
Poi un pensiero va al giornalismo come se in qualche modo ci fosse un nesso tra la crisi dell’arte del pugno e l’evoluzione di una professione che un tempo arruolava veri e propri “combattenti della parola”. "Il giornalismo si evolve; ogni epoca ha un suo stile giornalistico. Oggi questo mestiere, semplicemente, rispecchia la società in cui stiamo vivendo. Io non condannerei ma neanche mitizzerei il lavoro di redazione. Come tutte le professioni che si svolgono in gruppo ha sia i lati positivi che negativi. Tutte le redazioni in cui ho lavorato mi sono rimaste nel cuore. Gli incontri umani sono una ricchezza, anche se talvolta sviluppati tra tensioni". E la tv? "La potenza del mezzo televisivo sta nel rendere intatta l’immediatezza di una intervista, ad esempio, in tutta la sua potenza. Senza la mediazione della penna, della carta stampata".