Politica

Autonomia, federalismo differenziato tra buone ragioni e fondati timori

Giovanni Immordino*

I diritti di tutti i cittadini italiani non si difendono con una opposizione di principio alla differenziazione regionale. Bisogna invece insistere su un attento controllo sulle competenze e risorse devolute e sulle misure di riequilibrio territoriale.

Più competenze per tre regioni

Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna stanno per concludere il percorso di attuazione del cosiddetto regionalismo differenziato, che prevede l’attribuzione per 10 anni di maggiori competenze e risorse per gestire autonomamente settori fondamentali per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Tra le funzioni devolute alle tre regioni figurano ambiente, istruzione, tutela della salute, rapporti internazionali e con l’Ue, tutela e sicurezza del lavoro, commercio con l’estero, protezione civile, governo del territorio, porti, aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, ordinamento della comunicazione, beni culturali, professioni, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi, coordinamento finanziario.

Per finanziare le nuove funzioni verrà consentito a queste regioni, tra le più ricche del paese, di trattenere una parte del gettito tributario che attualmente viene utilizzato per finanziare le funzioni dello stato e il sistema di solidarietà nazionale, e per garantire “una programmazione certa del loro sviluppo” saranno loro riconosciute risorse disponibili sui fondi destinati allo sviluppo infrastrutturale del paese.

Ciò ha fatto temere una sorta di “federalismo per abbandono”, ossia il progressivo impoverimento delle funzioni destinate a salvaguardare i diritti di tutti i cittadini sull’intero territorio nazionale (quali sicurezza, difesa, giustizia) e la riduzione dei servizi e delle prestazioni pubbliche nelle altre regioni, soprattutto in quelle più “povere”.

La questione del “prezzo giusto”

Per il momento è impossibile valutare compiutamente gli effetti della devolution, poiché la consistenza effettiva delle competenze e delle risorse che saranno assegnate a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna è conosciuta soltanto attraverso bozze, più o meno aggiornate. In queste, si prevede che le regioni possano trattenere una quota di gettito fiscale prelevato dai propri contribuenti corrispondente alle risorse che attualmente vengono gestite dalle amministrazioni statali per finanziare istruzione, tutela della salute, protezione civile e le altre funzioni nei rispettivi territori. Nei prossimi anni le regioni differenziate dovranno progressivamente adeguare i costi al “prezzo giusto” per ciascuna attività stabilito dalla legge statale e una parte delle economie di spesa sarà devoluta al bilancio dello stato.

Di conseguenza, fino all’adeguamento ai costi standard Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna continueranno a contribuire come fanno adesso al finanziamento delle competenze statali e delle prestazioni essenziali delle altre regioni e quando ridurranno le spese di gestione delle nuove funzioni il loro contributo sarà ancora maggiore.

Se la legge statale non dovesse definire entro tre anni i costi standard, le regioni differenziate potrebbero ottenere più risorse rispetto a quelle che vengono attualmente spese nei rispettivi territori. Ma si tratta di una eventualità che può essere prevenuta dallo stato stabilendo entro tre anni il prezzo giusto, al netto degli sprechi, di ogni attività demandata alle regioni.

Più controversa, invece, la clausola che garantisce alle tre regioni risorse sufficienti per finanziare “una programmazione certa” degli investimenti pubblici e privati nei rispettivi territori attingendo ai fondi finalizzati allo sviluppo infrastrutturale del paese: una vera e propria forma di privilegio che non ha eguali nell’ordinamento.

Divari più profondi?

L’altro timore è che il regionalismo differenziato possa rendere più profondo il solco tra le regioni più ricche ed efficienti del paese e quelle più svantaggiate. Tuttavia, l’eventuale miglioramento nella gestione di prestazioni pubbliche in alcune regioni non sottrarrebbe nulla alle altre, ma anzi indicherebbe loro strumenti e modalità per migliorare i propri standard di efficienza.

In questo senso, la differenziazione regionale costituisce un importante fattore di meritocrazia istituzionale e offre un modello virtuoso di autonomia, fondato sul miglioramento dei servizi e delle prestazioni pubbliche, invece che, come è stato fatto sino ad oggi, sull’appiattimento verso il basso, realizzato impedendo a chi ne ha le possibilità e capacità di offrire condizioni di vita migliori ai propri cittadini.

Di conseguenza, la difesa dell’autonomia delle altre regioni e, soprattutto, dei diritti delle rispettive comunità non dovrebbe passare attraverso una opposizione di principio alla differenziazione regionale, ma piuttosto attraverso un attento controllo sulla devoluzione di competenze e risorse, nonché attraverso la rivendicazione di misure di riequilibrio territoriale che garantiscano il superamento degli eventuali handicap strutturali e infrastrutturali e il buon funzionamento del sistema di perequazione.

A queste condizioni, infatti, l’autonomia differenziata delle regioni più ricche contribuisce a migliorare l’efficienza del sistema pubblico complessivo e non sottrae risorse, garanzie e possibilità alle altre regioni e ai loro cittadini.

*Da Lavoce.info