Politica

Superare il bipolarismo, ecco le proposte per una nuova stagione politica

Nella nostra storia non abbiamo mai avuto due principali culture politiche, ma almeno cinque

di Luigi Marattin

Centrodestra e centrosinistra, ecco come superare il bipolarismo in Italia

Dopo il crollo della Prima Repubblica (in cui vigeva un sistema proporzionale), l’Italia ha deciso di organizzare il proprio sistema politico sulla base del bipolarismo tra un centrodestra e un centrosinistra. Da allora, chiunque si azzardi a metterlo in discussione viene trattato se va bene alla stregua di un povero ingenuo fanciullo; oppure, se è meno fortunato, equiparato a chi bestemmia in Chiesa.

In altre parole, l’assetto bipolarista dell’offerta politica viene considerato un dato immanente, eterno, immodificabile. E, evidentemente, il migliore dei mondi possibili. Ma noi siamo gente abituata a farci e a fare domande, nella consapevolezza che le domande o sono scomode o non sono. E allora chiediamoci: quali sono le condizioni che determinano la possibilità e l’efficienza di un assetto politico bipolarista? Ne possiamo individuare quattro. In un dato paese, il bipolarismo funziona:

Se vige da tempo una legge elettorale interamente maggioritaria: il fatto che nel collegio X chi prende un voto in più vince (e a chi prende un voto meno non rimane nulla in mano) porta naturalmente il confronto politico a strutturarsi in una gara a due. Anche se, come dimostrano le elezioni inglesi del luglio scorso dove una terza forza come libdem ha conquistato ben 74 seggi, questa condizione non è sempre stringente.

Se il paese vanta una pluridecennale – nel mondo anglosassone persino quasi plurisecolare – presenza di due culture politiche maggioritarie. I laburisti/conservatori in Gran Bretagna e Australia, i democratici/repubblicani negli Stati Uniti. A quel punto, il paese è così abituato ad avere un’opzione duale che esaurisca lo spettro delle posizioni politiche esistenti, che il sistema si struttura naturalmente attorno ad esse, fino a diventare addirittura bipartitico.

Se, come insegnano i manuali di scienza politica, la competizione tra centrodestra e centrosinistra si svolge sull’elettore mediano. Se, anche se le condizioni di cui sopra non dovessero ricorrere, centrodestra e centrosinistra hanno una postura politica (e conseguenti ricette di policy) all’altezza dei problemi del paese, e sulle quali competere nell’arena del consenso.

Se osserviamo liberi dalle gabbie del condizionamento ideologico, nessuna di queste quattro condizioni ricorre in Italia. Non c’è mai stata – neanche ai tempi del Matterellum – una legge elettorale totalmente maggioritaria, ma sempre con una consistente quota proporzionale (il 25% ai tempi del Mattarellum, addirittura il 66% oggi): e quando hai anche solo un 1% di quota proporzionale, hai un formidabile incentivo ai partiti che si presentano uniti nella parte maggioritaria a ri-spacchettarsi secondo la ripartizione proporzionale. Specialmente se i regolamenti parlamentari te lo consentono, come accade da noi.

Nella nostra storia non abbiamo mai avuto due principali culture politiche, ma almeno cinque: quella socialista, quella comunista, quella laico-liberale-repubblicana, quella cattolico-popolare e quella di destra sociale.

Forse il bipolarismo degli Anni Novanta, con due leader centristi come Prodi e Berlusconi e due coalizioni con forti motori centristi, competeva sull’elettore mediano. Quello di adesso, sicuramente no. Centrodestra e centrosinistra attuali sembrano piuttosto competere al loro interno sull’elettore estremo: così fanno Giorgia Meloni e Matteo Salvini nel centrodestra, e così fanno Elly Schlein e Giuseppe Conte nel centrosinistra.

E infine, alla domanda fondamentale (di cui il dibattito pubblico dovrebbe occuparsi giorno e notte), cioè “come mai siamo il paese che negli ultimi 30 anni è cresciuto di meno al mondo?”, centrodestra e centrosinistra forniscono due risposte ideologiche, comode, sloganistiche e sbagliate. Per il centrosinistra la colpa è di una inesistente austerità che avrebbe impedito al settore pubblico di continuare a spendere, per il centrodestra sul banco degli imputati ci va invece l’integrazione delle economie nazionali in sistemi più ampi (il processo di integrazione europeo e la stessa globalizzazione). Entrambe le spiegazioni sono comode perché individuano un colpevole esterno a cui affibbiare tutta la responsabilità, ma sono del tutto campate in aria.

Il problema della spesa pubblica in Italia non è il “quanto” (che continua a crescere), ma il “come” si spende; e, prima ancora di esaminare i dati che provano l’infondatezza di tale spiegazione, a livello intuitivo risulta piuttosto difficile spiegare perché degli oltre 200 stati al mondo che si sono aperti e integrati, la tanto crudele globalizzazione si sia accanita soltanto contro di noi.

Per la cronaca, la spiegazione del perché non cresciamo è più semplice ma meno comoda: perché il motore della crescita economica, la produttività totale dei fattori, in Italia ha smesso di crescere a inizi Anni Settanta, quando il paese non è più stato in grado di adeguare le proprie strutture economiche, sociali e politiche ad un mondo che iniziava a cambiare e che poi, negli Anni Novanta con la globalizzazione, ha prodotto un cambiamento di entità storicamente paragonabile alle rivoluzioni industriali di due secoli prima.

La domanda allora sorge spontanea: ma se in Italia non vale nessuna delle condizioni che normalmente giustifica l’organizzazione del confronto politico su basi bipolariste, esattamente perché dobbiamo considerare immutabile e definitivo tale assetto? In cui ormai ci siamo abituati a vedere coesistere partiti anti-europei con convinti europeisti (come accade con Lega e Forza Italia nel centrodestra), o partiti con posizioni antitetiche tra loro su praticamente ogni aspetto della dimensione pubblica, dal Jobs Act al supporto all’Ucraina (come accade nel centrosinistra).

Ma qual è l’alternativa al bipolarismo? Di due tipi. Immaginate innanzitutto che i partiti non siano più costretti nelle gabbie delle coalizioni-carovane, ma possano esistere con la propria identità politico-culturale: un partito comunista-ecologista, un partito socialista, un partito liberal-democratico, un partito conservatore, un partito populista.

A questo punto sono possibili due alternative. O abbiamo un sistema proporzionale con sbarramento, in cui ognuno di questi partiti riceve un “peso” dagli elettori e le trattative per la formazione del governo avvengono alla luce del sole sulla base del peso attribuito dagli italiani e sulle principali proposte programmatiche che ne hanno definito la proposta politica votata.

Oppure – se non ci piace il proporzionale e vogliamo sapere chi guida il governo appena concluse le operazioni di conteggio delle schede - abbiamo un sistema maggioritario a doppio turno, dove al primo turno ognuno si presenta con la propria identità, e al secondo turno i primi due classificati si giocano il governo del paese. In altre parole, al primo turno l’elettore vota il partito più vicino, al secondo il meno lontano.

Quale di questi due, diversissimi, modelli scegliere non dovrebbe essere una scelta a braccio di ferro, ma il frutto di una riflessione condivisa tra le forze politiche. Perché il funzionamento delle istituzioni e le regole della competizione democratica sono un bene pubblico la cui fornitura non deve essere guidata da considerazioni di parte ma dalla sacra bussola dell’interesse del paese.

Beh, sono stato abbastanza un “ingenuo fanciullo” o, se preferite, ho sufficientemente “bestemmiato in Chiesa”. Però a tempo perso, se vi va, fatevi un favore: pensateci un po’ meglio, e senza condizionamenti. Perché dalla riorganizzazione su basi più efficienti del nostro sistema politico passa, praticamente, tutto il resto.