Politica

Governo fra slogan e sussidi. Zingaretti e i tre squilli di tromba

Di Massimo Falcioni

Con la prima assemblea web di ieri fra Zingaretti e i segretari dei circoli il Partito democratico ha voluto battere un colpo. Con la parola d’ordine “Ricostruire fiducia” il Pd giura che c’è, deciso a gestire l’emergenza del post Coronavirus per non far precipitare l’Italia nel tunnel di una devastante crisi economica e sociale. C’è, ma comec’è il partito del Zinga nel bagnasciuga dei sondaggi sul 20% (uno zoccolo duro grazie al voto dei “garantiti” quali dipendenti pubblici, pensionati, assistiti di vario genere), inchiodato alle poltrone del potere ma nei fatti partito assente, “né di lotta né di governo”? Zingaretti ci prova: “Siamo la forza che più vuole portare nell’azione di governo chi in questi giorni rialza  la saracinesca, chi riprende a produrre, chi si rimette in moto e ha bisogno di una grande iniezione di fiducia”. Ma già le proteste degli albergatori e dei ristoratori: “Con queste regole aprire vuol dire fallire” sono l’iceberg del disagio ampio e profondo dei piccoli e medi imprenditori, di artigiani e di professionisti di ogni settore che preludono a fallimenti, licenziamenti e disoccupazione, la spia del peggio che incombe. Quando Zingaretti lancia la sfida: “Serve la politica, la grande politica non quella che litiga e si fa gli sgambetti” pare un alieno. La realtà è un’altra: nel Palazzo c’è la sceneggiata parlamentare del 20 maggio sull’affaire Bonafede mentre il Paese reale non sa se e come riparte dopo la botta della pandemia e come far fronte a una eventuale seconda ondata perché il virus circola ancora e può tornare a colpire. Zingaretti ha un bel dire ma a dare il cattivo esempio è proprio la politica, di cui il Pd è perno e volano, che riesce addirittura a dimostrarsi peggiore di prima. Nella maggioranza vige il ricatto del “prendere o lasciare”. O Bonafede resta al suo posto o addio Conte. Questo è stato il refrain, questo è il refrain, questo sarà il refrain. Il bello e cattivo tempo lo fanno i 5Stelle, con il Pd che si atteggia a padre nobile e a gran regista politico ma che nei fatti è un succube gregario. Un partito privo di identità politica che svende la propria dignità per il potere e che neppure prova a dire che il governo si difende meglio dagli attacchi di Salvini e del centrodestra mettendo da parte i ministri che vanno messi da parte o almeno spostare Bonafede in un altro ministero nella logica del promoveatur ut amoveaturcome accadeva ai tempi della Prima Repubblica con i “rimpasti”. Qui siamo. Così ha buon gioco chi soffia sul fuoco del malcontento sociale che c’è, cresce e può degenerare anche per quei provvedimenti del governo che molto promettono e poco e male danno. Così lo stato di logoramento e di deterioramento di Conte e del suo governo si traducono nei sondaggi negativi del 20 e 21 maggio (Termometro Politico). Per la terza settimana consecutiva Conte e il governo calano: il 56,7% ha poca o nessuna fiducia nel premier contro il 42,7% che ancora lo sostiene. Se Conte continua a perdere consenso figurarsi quel che presto può accadere ai partiti di maggioranza. Nel Paese, comunque, tira un’aria per nulla rassicurante  perché né i partiti di maggioranza né i partiti di opposizione hanno uno straccio di idea – figurarsi un progetto  politico di grandi riforme– che vada oltre slogan e sussidi. La politica in stallo non produce solo vuoto ma alimenta il germe del ribellismo. Prima o poi gli italiani diranno quel che pensano. C’è da sperare che ciò avvenga democraticamente, nel segreto dell’urna, non nel caos della piazza. Adesso tocca a Zingaretti e al Pd dare la svolta e lanciare i tre squilli di tromba. Prima che sia troppo tardi.