Politica

Governo: requiem per Di Maio, l'uomo che volle farsi premier (ma fece flop)

Marco Zonetti

Per due mesi Luigi Di Maio ha lanciato diktat a destra e a manca, restando infine con un pugno di mosche e dimostrando tutta la sua inconsistenza

L'annuncio del "governo neutrale" di Sergio Mattarella, seguito dallo spauracchio del ritorno al voto in piena estate tra un lancio di gavettoni e un contest balneare di Miss Maglietta Bagnata, ha piantato l'ultimo chiodo sulla bara delle velleità di Luigi Di Maio, colui che fino a ieri lanciava diktat all'universo mondo pretendendo di essere premier a tutti i costi, perché altrimenti dopo di lui il diluvio

Sospinto mentalmente dalle note di "Andiamo a comandare" e gonfiato dal mantice della propaganda del suo mentore Rocco Casalino, che molto ha imparato dalla sua esperienza del Grande Fratello quanto a fuffa sapientemente amministrata, l'ex valletto dello stadio San Paolo di Napoli è passato da una sala istituzionale all'altra con la protervia del capetto di quartierino e l'assurda e insipiente convinzione di essere l'erede di Giulio Andreotti. 

Artefice di una svolta "dimaiocristiana" che è parsa a molti simpatizzanti grillini azzardata quanto un'inversione a U sull'autostrada, per due mesi si è librato sulle ali della sua ambizione smentendo tutto ciò che il Movimento 5 Stelle aveva sbandierato fino a poco prima e andando a bussare a ogni porta, perfino a quella dell'odiatissimo Pd, al solo scopo di arrivare a Palazzo Chigi. Mentre Matteo Salvini, che faceva già politica quando il pupillo di Casaleggio era ancora in fasce, abbandonava il piglio aggressivo e le velleità personali per ragionare in termini di alleanze facendo diversi passi indietro, Di Maio esigeva invece l'appoggio di "chiunque basta che respiri" imponendo tuttavia la propria premiership in qualunque esecutivo dovesse formarsi ed esigendo il ripudio di Silvio Berlusconi da parte di Salvini e di Matteo Renzi da parte del Pd.

Incassato il sonoro no del centrodestra, quindi quello del Partito Democratico, e trovandosi spiazzato, Di Maio ha finalmente  - due mesi di patetici tiramolla più tardi - fatto un passo indietro offrendo un'ultima foglia vizza d'ulivo a Matteo Salvini, rinunciando alla clausola imprescindibile della propria premiership pur mantenendo il veto su Berlusconi. Salvini gli ha però rivolto fra le righe lo stesso icastico invito che animava il Movimento 5 Stelle agli esordi (suggerimento, inizia con "V" e finisce con "ulo"). Il ragazzo della porta accanto, insomma, ha rimediato una nutritissima collezione di porte in faccia, anche dagli esponenti politici ai quali aveva letto - anzitempo - l'estrema unzione e che invece a conti fatti si sono dimostrati più vivi e freschi di lui.

In due mesi di negoziati infruttuosi, Di Maio è riuscito nella mirabile impresa di risultare sgradito anche ai suoi (ex) aficionados, tornati in massa a idolatrare il suo rivale di sempre Alessandro Di Battista (fermo in panchina per la prossima stagione della fiction grillina, imperniata sul ritorno dei primordiali toni battaglieri e "cheguevariani" dopo la comica parentesi in grisaglia). 

La regola dei due mandati subirà una deroga grazie alla fata madrina Beppe Grillo, quindi il buon "Giggino" tornerà a candidarsi alle prossime elezioni, vicine o lontane esse siano. Riesce difficile tuttavia credere che, non avendo raggiunto il 40 % il 4 marzo, e dopo i non proprio esaltanti exploit da candidato premier durante le consultazioni, sarà di nuovo scelto quale primo ministro in pectore del M5s. Di Maio, l'uomo che volle farsi premier (e che fece flop), è in fondo prigioniero del suo tragico destino di prodotto di marketing, condannato a essere sostituito con uno più convincente ai primi segnali di cedimento della popolarità.