Politica

Il premier Giuseppe Conte e la questione Pd

Di Massimo Falcioni

La "questione Partito democratico" per il governo Conte

L’ultima mazzata sullo stato dell’Italia dopo il lockdown viene dal crollo demografico con i nati che scenderebbero a circa 426 mila nel bilancio finale del 2020. Lo dice l’Istat nel suo rapporto annuale che toglie i veli su un Paese che ha resistito alla sberla del Covid-19 ma che annaspa, più impoverito, più incerto, più preoccupato, dove crescono le disuguaglianze e cala la speranza di un domani migliore. In un Paese stordito dagli effetti della pandemia e con l’incubo di una seconda ondata non sarà facile far passare l’idea che adesso la priorità è la nuova legge elettorale.

Conte, senza un cambio di passo, poco potrà fare nei prossimi giorni e nelle prossime settimane perché lo  scontro politico ruoterà  sulla riforma elettorale lasciando tutto il resto per il dopo.  Perché tanta agitazione? La nuova legge cambierà le regole del gioco stravolgendo gli attuali equilibri, con un Parlamento rivoltato come un calzino, con partiti e leader rafforzati e altri ridimensionati o addirittura cancellati. Una bomba ad orologeria, dunque, che può esplodere dopo il passaggio delle elezioni regionali di settembre e il referendum sul taglio dei parlamentari. Le urne di settembre - con un Pd se va bene stagnante, un M5S ristretto, con la possibilità che il centrodestra conquisti nuove regioni – possono incidere sul quadro nazionale, fino a  far saltare il banco. Il filo teso e logorato dell’alleanza fra Pd e M5S può dunque spezzarsi. I 5Stelle non trovano la quadra.

Al centro di tutto c’è la “questione Partito democratico”. Zingaretti tiene il Pd a bagnomaria, non riuscendo a schiodarlo elettoralmente da un 20% che è troppo pocoper diventare  volano di maggioranza di governo ed è troppoper rimanerne fuori. I nodi vengono al pettine. Il problema riguarda l’ identità e la strategia politica: cos’è oggi un partito di sinistra, qual è il suo progetto di governo, quali alleanze sociali e politiche. Ecco la patata bollente del rapporto con il M5S che va al di là dei tatticismi e delle beghe quotidiane per questioni di potere. L’alleanza con i 5Stelle è per il Pd strategica, quindi stabile e irreversibile? O è pro tempore, di tipo tattico, che deve essere superata e che deve portare a una svolta alternativa mirando a un inedito “fronte repubblicano” Pd-Forza Italia e altri partiti minori, renziani e parte dei grillini, recuperando l’astensionismo? Come nel gioco dell’oca si torna alla verifica iniziale, se fra Pd e M5S c’è incompatibilità politica“di natura” e anche per i trascorsi bellicosi in cui ci si insultava (e non solo) reciprocamente  o all’opposto se c’è un filo comune che viene da lontano.

Gli ex Pci del Pd  guardano dall’alto in basso i grillini: “So’ ragazzi!”, considerandoli nei loro strappi: “Compagni che sbagliano”, spesso assolvendoli perché privi di storia e cultura politica, senza l’ideologia marxista-leninista e senza la via italiana togliattiana-berlingueriana. La “lotta di classe” degli ex comunisti non trova una continuità nella “lotta alla casta” dei grillini, in una semplificazione dovuta anche a due decenni di cultura dell’anti politica?

E l’anticonsumismo e l’austerità asse della “questione morale” berlingueriana  non vengono riprese, magari distorte e mal reinterpretate, anche oggi dai 5Stelle? La fortunadel PCIè che, per la “conventio ad excludendum”,  non ha mai potuto governare l’Italia, rimanendo quindi fuori dalla spartizione della grande torta, con le mani pulite. Oggi, per Zingaretti e per il Pd il problema vero non è Salvini. Neppure per Conte: che non può fare né il paciere nè lo spettatore, aspettando l’esito di uno scontro che investe già la maggioranza del suo governo. Tocca a Conte rimettere subito in riga l’orchestra dettando la sua musica. Prendere o lasciare.