Politica

In Cina è autoritarismo high-tech. Controllo di informazione e menti

di Sara Garino

Obiettivi e strategia della superpotenza digitale voluta da Xi

La sicurezza dei dati d’altro canto è garanzia per il loro possesso pieno e operativo: un possesso che si traduce ineluttabilmente nel controllo dell’informazione stessa. Lo diceva già Xi Jimping nel 2013: “coloro i quali controllano i dati sono destinati a prendere il sopravvento” e il controllo dell’informazione, per l’appunto, è stato inserito nel 2020 fra i cosiddetti “fattori di produzione”, insieme al lavoro, alla terra, al capitale e alla tecnologia.

Il futuro che la Cina prepara per se stessa è già evidenza quotidiana. Quella di una superpotenza tecno-autoritaria, o se preferiamo di una dittatura hight-tech, dove la promozione dell’innovazione scientifica e tecnologica rappresenta uno fra i principali canali di sfogo delle straripanti ambizioni egemoniche mandarine. E non saranno Xi, né gli echi maoisti a cui ultimamente presta orecchio, a invertire questa incipiente tendenza. Lo conferma con un fraseggio evocativo e tagliente Kendra Schaefer, Responsabile di Ricerca sulle Politiche Tecnologiche della Trivium China: “non c’è alcuna volontà di gettare acqua sul fuoco dell’innovazione. Piuttosto Pechino guarda a queste normative sui dati come al modo per direzionare produttivamente lo sviluppo tecnologico, dando forma definitiva al modello di economia digitale cinese”.

Tradotto in termini ludici, dare prima le regole del gioco e poi costruirci sopra il “gioco”, il progetto, che ad esse risulti più acconcio. Un impero dei dati, insomma, dove l’imperatore (Stato, Partito Comunista Cinese, Xi Jimping) abbia de facto accesso a qualsivoglia informazione ritenuta di interesse: e anzi, dove le informazioni siano per costruzione ad usum dello Stato. Nessuna clemenza per i trasgressori, fra i quali la Didi Chuxing, un’azienda di trasporti con sede a Pechino, rea di aver spostato a New York piani di quotazione azionari per oltre 4,4 miliardi di dollari senza aver prima ricevuto l’autorizzazione della Cyberspace Administration of China (CAC). CAC che, in risposta, ha subito aperto una procedura di indagine per violazione della sicurezza nazionale, ostracizzando al contempo la app della Didi dalle piattaforme cinesi. “I provvedimenti”, afferma il Vice-ministro della Cyberspace Administration, Sheng Ronghua, “vengono adottati nell’ottica di proteggere le infrastrutture critiche di informazione, e tutte le aziende non importa a quale comparto afferiscano o dove siano quotate devono osservare pienamente le leggi e le disposizioni vigenti”. Tanto da prevedere, per quelle realtà aziendali la cui capacità di raccolta dati si dipani oltre un milione di clienti/fruitori, di sottomettere le stesse al management diretto del Partito Comunista Cinese.

Un autoritarismo che può venir meno solo se piegato da frizioni e sommovimenti provenienti dalla società. Ed è proprio per sopirli che l’hight-tech spinto tinge se stesso anche di un volto mite, compiacente, quello dello Stato vicino ai bisogni e alle esigenze del popolo. Una sorta di leninismo digitale, per cui, come sottolineato dal Professor Dimatar Gueorguleg, Docente alla Syracuse University di New York e Autore del libro “Retrofitting Leninism”, “la Cina di oggi è più sensibile all’opinione pubblica, meno prona a errori politici grossolani e decisamente meglio equipaggiata a gestire la sua pachidermica burocrazia”. Gli fa eco Andrew Gilholm, Direttore di un’agenzia di consulenza sul controllo rischi, per cui “la visione cinese è proprio quella di governare più efficacemente, così da poter in questo modo superare tutte quelle secche legate, appunto, ad atavici problemi di governance”. Insomma, direbbero i Latini, promoveatur ut amoveatur.

Un ultimo aspetto da sottolineare è quello dei numeri: “monstre”, come è facile che sia in Cina. Il gigantesco esperimento tecno-autoritario di un unico grande occhio statale – ontologicamente repressivo, pur nei suoi tentativi di dimostrarsi rassicurante – si fonda infatti anche sul poderoso dispiegamento di oltre 415 milioni (415 milioni!) di telecamere di videosorveglianza, allenate al riconoscimento facciale e a ogni altro ammenicolo, nonché su 300 milioni di social security cards digitali, per ricerca di lavoro, prescrizioni sanitarie o trasporto pubblico. Oltre ovviamente ai pagamenti digitali, con il digital renmimbi che dovrebbe definitivamente decollare con i Giochi Olimpici Invernali del prossimo anno. E ancora, l’esperimento (riuscito) delle smart-cities: oltre 800, fra già costruite e in programmazione (la metà di quelle presenti sull’intero pianeta), improntate al solo criterio di far dirigere e controllare tutto dal cervellone elettronico.

La domanda che sorge spontanea ora è: in questa visione alla Orwell, che posto e soprattutto che ruolo ha la società? Quella di una collettività di persone oppure, tecno-autoritaristicamente parlando, quella della fattoria degli animali?