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La miopia degli investitori e il rischio svendita delle nostre migliori imprese

di Simone Strocchi*

Il clima è di irrisolta tensione generale, acuita dalla congiuntura dominata da continue altalene del costo di molte materie prime

La miopia degli investitori e il rischio svendita delle nostre migliori imprese

La cosiddetta “economia reale” non può prescindere dal sostegno della finanza in una interdipendenza indispensabile evidenziata nei rendiconti patrimoniali a sezione contrapposte: a sinistra l’azienda, con le immobilizzazioni in macchinari e beni strumentali, il magazzino, i crediti commerciali; a destra la finanza, con il capitale investito dagli azionisti, i finanziamenti erogati da banche e portatori di titoli di credito e così via.

Analisti e gestori di fondi d’investimento azionari, affaticati da più di un anno di emorragia di liquidità, che abbandona l’equity nazionale attratta e distratta da strumenti finanziari a reddito fisso e BOT a fiscalità ridotta, si concentrano ora nella lettura del conto economico dei primi sei mesi del 2024 delle nostre imprese quotate che supportano la gran parte dell’ecosistema economico sociale nazionale, nel tentativo di individuare vincitori e perdenti e cercando di prevedere come si chiuderà l’anno fiscale 2024.

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Il clima è di irrisolta tensione generale, acuita dalla congiuntura dominata da continue altalene del costo di molte materie prime in contesto in cui si teme un calo di capacità di spesa dei consumatori europei. Sta poi accadendo qualcosa che ci preoccupa a livello non ancora razionalizzato: il “nostro vicino di casa” quest’anno ha fatto le vacanze più brevi perché si vocifera che l’azienda per cui lavora, importante nel distretto, stia trasferendo la sua funzione al quartier generale della nova proprietà straniera.

Gli addetti ai lavori si confrontano e talvolta cercano di trovare in modo semplicistico il fattore “X”, il segno caratteristico dei campioni d’impresa nella selva di titoli sul listino, spesso sembrano particolarmente inquieti e deconcentrati e, con una certa sorpresa, ho sentito esprimere da parte di taluni analisti e da alcuni gestori considerazioni molto risolute in merito alla necessità di abbandonare gli investimenti nelle medie imprese italiane, troppo piccole per garantire la liquidazione veloce delle posizioni per rispettare stringenti indici di liquidità imposti dalla compliance.

I pochi che perseverano nell’orientare sempre più contenuti investimenti su di esse, “volano alto” e sembrano ricercare società capaci di consegnare incrementi di fatturato di anno in anno, incuranti delle variabili sistemiche, come se la prima linea del bilancio fosse, a prescindere dalla tipologia di azienda, discriminante unica, capace di qualificare società virtuose e società problematiche.

Questa crescente diserzione e banalizzazione francamente mi sorprende e in particolar modo da italiano mi preoccupa, perché la nostra economia ha bisogno di investimenti finanziari per crescere e perché “la progressione del fatturato”, considerato a se stante nel breve periodo, non è assolutamente sempre idoneo a discernere tra società buone e cattive e non rende giustizia alle strategie, al lavoro e all’impegno di persone che quotidianamente animano e dirigono le nostre PMI manufatturiere e alla conseguente capacità di espanderne la redditività.

Siamo in Italia e abbiamo un’economia qualificata perlopiù in aziende di piccole e medie dimensione “di trasformazione”, che vanno giudicate per la capacità di determinare marginalità e generazione di cassa nel medio e lungo periodo. Fermarsi alla considerazione spiccia sulla loro dimensione o sulla evoluzione del fatturato, senza entrare nel merito del loro posizionamento e del dettaglio dei loro fondamentali, è un grande errore e porta a considerazioni valutative spesso infondate ed errate.

Un’azienda di trasformazione compra materie prime, opera trasformandole/assemblandole per declinare prodotti articolati, dalla cui vendita realizza il proprio fatturato e la propria marginalità lorda e netta; se le materie prime, che sono una parte importante della formazione del prezzo del prodotto finito  calano di prezzo, le acquista a meno e conseguentemente fattura meno, se salgono di prezzo, le acquista più care, con conseguenze spesso accrescitive del fatturato indipendenti da quanto marginalizza e dal fatto di aver aumentato o diminutivo i propri clienti.

Se una impresa manifatturiera volesse soddisfare il requisito di crescita di fatturato senza curarsi di altro, potrebbe ridurre la marginalità, “regalando” il lavoro di trasformazione e vendendo conseguentemente un maggior numero di prodotti finiti al costo delle materie prime senza congruo margine.

Faccio un esempio estremo, giusto per capirsi: il benzinaio, se il petrolio sale, fattura di più, se scende, fattura di meno. Ma per capire se il benzinaio è capace e resiliente non bisogna guardare quanto fattura! Bisogna approfondire e capire se ha guadagnato di più o di meno in termini di marginalità e se ha aumentato o diminuito i litri di carburante venduti e se opera su una strada di traffico crescente o no.

I mercati borsistici di trattazione delle PMI non possono essere condizionati unicamente di chi approccia l’analisi dei bilanci con eccessiva leggerezza: fermarsi a considerazioni “alte” come la crescita o decrescita del fatturato nel breve periodo non ha senso e, data la natura del nostro tessuto industriale, finisce per avallare un preconcetto pessimista sulle aziende di trasformazione e quindi inconsapevolmente un approccio antitaliano.

Difendiamo le nostre imprese performanti e investiamo sulla loro capacità di marginalizzare (che preservano talvolta rinunciando a vendite a prezzi stracciati). Ci sono delle società italiane oggi sul listino borsistico che hanno dei free cash flow yield del 15-25% (significa che quotano a valori contenuti in 4, 5 volte la cassa che generano in 12 mesi).

Queste società se non vengono attenzionate  con un occhio analitico più competente, se finiscono per essere espulse dagli schermi di attenzione dei gestori di fondi aperti, se non trovano presto investitori liberi dall’ossessione per la liquidità giornaliera, diventeranno inesorabilmente oggetto di delisting sponsorizzati da capitali stranieri e, nel tempo, con la governance che finirà per passa non nazionali, perderanno quella sensibilità italiana che ha reso la nostra collettività benestante e agiata.

La cosa che mi impressiona è che, mentre le nostre PMI sono svilite e mortificate sui mercati, a prescindere dai loro fondamentali e dalla loro potenzialità, non troviamo la necessaria chiamata generale all’azione, se non trafiletti che dissertano sull’“imminente” sostegno di CDP alla nascita di fondi chiusi che opereranno sul mercato con qualche centinaio di milione di euro, per cui come comunità finanziaria ci siamo battuti, ma che è un po’ poco per la terza economia industriale europea.

Al contrario, ascoltiamo a reti unificate proprietari di famosi club e pizzerie “esclusive” pontificare su ogni tema economico, come se rappresentassero davvero l’imprenditorialità che regge il nostro Paese, riducendola all’idioma “pizza spaghetti e mandolino” in una proposta riformulata per ricchi, o concentriamo l’attenzione mediatica su esempi che arrivano dagli USA, con giornali che dedicano pagine alla “Truth” che debutta sui mercati a stelle e strisce a miliardi di valutazione (con 5 milioni di dollari di fatturato e 15 milioni di perdita) o agli idoli Nvidia e di Musk.

Dimentichiamo troppo spesso che il “nostro vicino di casa” si alza ogni mattina per andare a lavorare in un’azienda di trasformazione meccanica o del food italiano, ma di quelle poco ci importa,  tant’è che le società che qualificano l’industry nazionale, che danno lavoro a  gran parte degli italiani, languono sui listini a valori risibili, dimenticate da chi gestisce i nostri risparmi, pronte ad essere impacchettate nel prossimo takeover sponsorizzato da capitali stranieri che le identificano come succulenti bocconi per accelerare e garantirsi, loro sì, un futuro di performance e crescita.

Non mi capacito: investo e continuerò ad investire in PMI italiane virtuose insieme ad un gruppo di italiani appassionati, auspicando che questo gruppo si allarghi perché investire nelle nostre imprese è una opportunità economica ed una necessita per preservare il benessere collettivo. Guadagnare nel medio lungo periodo, condividendo i successi delle nostre Pmi di eccellenza e vedere ritornare il sorriso sui volti dei vicini di casa, è la migliore prospettiva per indirizzare con convinzione i nostri risparmi.

*Presidente Electa Ventures