Politica

"La nostra storia va raccontata", parla Sergio Segio, ex Prima Linea

Simone Cosimelli

L'intervista di Affari Italiani al fondatore ed ex leader di Prima Linea

Monica Galfré, docente universitaria di storia contemporanea, nel libro La guerra è finita (Laterza, 2014), ha scritto che il Terrorismo rosso, in Italia, alimentato da decine di gruppi, è stato «un caso imparagonabile al resto d’Europa per durata, intensità e radicamento sociale». In totale: quasi 200 morti (inclusi circa 40 militanti), migliaia di feriti e innumerevoli attentati. E alla fine 20 mila inquisiti, 4200 incarcerati, centinaia gli ergastoli e più 50.000 anni di detenzione (oggi scontati). Sono gli «anni di piombo». Dal Sessantotto giovanile (il lungo Sessantotto) all’autunno caldo e la strategia della tensione. Dal Movimento del Settantasette allo shock del sequestro Moro. Il bilancio – nel complesso - di Prima Linea, organizzazione armata di estrema sinistra seconda solo alle Brigate Rosse (e attiva dal 1976 al 1983), è di 23 vittime. Due gli omicidi eclatanti: i magistrati Emilio Alessandrini e Guido Galli. E di quella storia di ideologia e sangue, Sergio Segio, l' ex leader, è stato tra i protagonisti. Arrestato nel 1983, ha scontato 22 anni di reclusione; e dal 2004 è libero. Nel 2005 ha scritto Miccia Corta. Una storia di Prima Linea (DeriveApprodi). La cronaca (e il ricordo) del 3 gennaio 1982: quando insieme ad altri, e con PL di fatto già archiviata, fece saltare in aria il muro di cinta del carcere di Rovigo ed evadere quattro detenute, tra cui la compagna Susanna Ronconi. Un piano studiato: dove, però, rimase coinvolto e morì un pensionato, Angelo Furlan. Giunto alla terza edizione (Milieu, 2017), il volume, ampliato e aggiornato, sullo sfondo ripercorre l’esperienza dei movimenti e della militanza, e ha già ispirato il film La Prima linea di Renato De Maria (2009). Ieri è stato presentato alla biblioteca delle Oblate di Firenze. Un dibattito d’accademia sugli anni ’70, «dalla memoria alla storia». E a margine, Segio ha parlato con Affari Italiani.

 

Segio, perché quei fatti dovrebbero passare dalla cronaca alla storia?

«Innanzitutto per la distanza temporale che ci separa da quanto accaduto (35-40 anni). Un lasso di tempo che, se non guarisce le ferite e non ripaga le offese, rende necessario, e anzi doveroso, trasformare quegli anni in un messaggio e in una lezione di storia per le nuove generazioni. Alle quali non può essere consegnata solo la stigmatizzazione. Le nuove generazioni, oggi, hanno una fortuna che io non ho avuto».

Quale?

«Quella di vivere in tempo in cui non si muore tutti i giorni nelle strade e nelle manifestazioni per la repressione della polizia».

Una «macelleria», scrive nel libro.

«Per me, guardando indietro, risulta forte il sentimento di nausea per il sangue che scorreva. Una violenza quotidiana che permeava le scuole, le fabbriche, la società. La violenza esiste ancora, certo: ma magari è geograficamente distante (quasi non vediamo più, nei TG, le immagini di bombardamenti in Paesi lontani). Assistiamo a episodi di terrorismo, per fortuna limitati nelle capitali europee, che colpiscono l’individuo solo quando avvengono nelle sue vicinanze. Solo quando gli cadono addosso. Allora era diverso: era impossibile starne fuori. E i giovani, dunque, dovrebbero avere la pazienza di ascoltare questa storia: nel racconto dello Stato, che ha vinto, ma anche nel racconto di chi ha esercitato la violenza, e ha perso. Perché in ogni epoca, e a ogni latitudine, chi compie scelte del genere è convinto, in quel momento, di essere nel giusto».

I militanti di Prima Linea, ha detto, non sono nati «con le pistole in mano». Per questo bisogna contestualizzare, e capire. Ecco: che differenza c’è tra la contestualizzazione, come la intende lei, e il volersi giustificare?

«Contestualizzare e giustificare sono due concetti profondamente diversi. Spiegare quei fatti serve a comprendere, non a giustificare. Comprendere, lo dice l’etimologia, significa “prendere con sé”: sentire come propria, a livello sociale, una storia che è stata prima relegata nel buio delle prigioni, e adesso condannata a non potersi raccontare».

E nel sostenere questo non c’è del protagonismo da parte sua?

«No. Non vuol dire in nessun modo salire in cattedra per esporre soltanto un punto di vista. Piuttosto c’è il tentativo di dare un contributo di propria soggettiva memoria: affinché si possa ricomporre, tra vinti e vincitori, un quadro sufficientemente complesso e sufficientemente rappresentativo».

Lei ha scontato la pena, si è dissociato, e oggi è impegnato nel sociale. Ha fatto un preciso percorso di riabilitazione. Ma non le sembra che, nel voler ricordare quello che ritiene si sia taciuto, ci sia anche del rancore personale?

«Penso di essermene liberato da tempo. Non ho rancore: e cammino in punta di piedi per la consapevolezza delle sofferenze che ho inflitto e delle responsabilità che mi appartengono. Piuttosto sento del rancore su di me: cioè il fastidio che provoca il mio voler parlare. E’ successo in tante occasioni in questi ultimi anni. Non accetto di camminare rasente i muri, però. E credo che offrire il mio punto di vista, e ripeto: non per protagonismo, sia anche, se vogliamo, un risarcimento sociale». 

 

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