Politica

La voce dei nostri. Lettera al Generale Vannacci

Di Paolo Diodati

Il sasso che lei pensava di lanciare in uno stagno sta provocando un maremoto

 

LA  VOCE  DEI  NOSTRI

 

Potete pur  privarmi del mio letto, sedia, denti e tetto.

È niente.

Ché il tutto è riposto in tanti dolci suoni.

Lingua che sei straniera,

io sì lo so, vorrei  distinguerti sempre dalla mia,

perché la mia non muoia.

Lingua dove il “sì” suona, con dolci gamme per ogni sfumatura

dei sentimenti  umani.

Lingua che mi sei cara da quando,

appena schiusi gli occhi, 

ascoltavo i miei.

La tua dolcezza è un persuadendo gli infiniti suoni,

nostre bell’espressioni,

a non scordare, a non abbandonare.

La nostra lingua è tutto

e nel momento in cui me la strappate,

la nostra immagine muore allora

e tutto macera, fino alla sparizione.

 

Affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda

che si smorza avvicinandoci e spingendoci più a riva.

Portiamo il pesce,

ch’è di questo mare, cioè del Mare Nostrum.

Comprate il nostro pesce, al gusto del sapore antico,

da un viso consumato al sole, al sale, alla sofferenza.

Bevete il nostro vino, comprate il nostro pane,

perché è un tramandare

al mondo questo e quello.

 

È  in quel vociare chiaro, che ascolto al porto,

l’identità isolana.

In quella pace vengo a ritrovare,

casalingo e familiare, l’antico focolare.

Non voglio luci.

Quest’isola superstite ha il suo ritmo che si manifesta

e rispetta l’ordine della natura. 

E, come tutti i perdenti,

tende a scomparire…

cerchiamo di tenerla intatta, rifiutiamo

di globalizzarla, rifiutiamo!

 

 

E la voce dei nostri, ragazzi,

facciamo ricorso ai miracoli,

non facciamo svanire, non uccidiamo

i bei vocaboli,

ché dà vita quella voce ai vostri volti

ed al passato.

Parlami, la nostra lingua, dei nostri avi parla.

Perché non svaniscan le cime,

le vette dei romanzieri, dei poeti.

 

Private un povero del suo letto e tetto,

sempre vive…

Globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende

un velo, il sudario, sul perdente.

Lui spadroneggia e muore quell’universo che ha cantato

il nostro Dante a Dio.

Muore pure L’Infinito, ché, tradotto, non vive,

non è Infinito, appunto. 

La morte canto io perché, globalizzando,

la morte è il suo riassunto.

 

Et in mercatum animum non potest,

non habuit imperio…

Il cuore sul mercato non ha imperio,

non ha nessun comando…

The heart has no control on market,

no rule of heart exists…