"Monti e Letta europeisti solo a parole". Ecco il libro di Renzi - Affaritaliani.it

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"Monti e Letta europeisti solo a parole". Ecco il libro di Renzi

"Quando la cancelliera mandò un sms a mia figlia"

I rapporti con la cancelliera tedesca Angela Merkel e con gli altri leader Ue e anche con chi l’ha preceduto a Palazzo Chigi, Mario Monti ed Enrico Letta. Matteo Renzi racconta il periodo che l’ha visto alla guida dell'esecutivo nel suo libro "Avanti", in uscita mercoledì, del quale il Corriere della Sera pubblica un estratto.

Dall’altra parte del tavolone dei ventotto capi di governo è seduta una signora che mi sta squadrando e seguendo con gli occhi: proprio lei, la cancelliera federale, Angela Merkel. Il galateo continentale, elegante ma spesso ipocrita come molti galatei, impone a tutti di chiamarsi per nome: Angela, François, David; sembriamo tutti in gita scolastica. (...)

La Merkel, che mezza politica nostrana descrive come la principale stratega di una visione anti-italiana, diventa improvvisamente Angela, una collega. Il nostro è un rapporto intenso ma complicato. Io la stimo, e certo non concordo minimamente con chi la indica come la responsabile dei problemi italiani: se l’Italia non va è colpa dei politici italiani. (...) 

Contemporaneamente mi rendo conto che in Consiglio lei è talmente rispettata e presente su tutti i dossier che in pochi hanno il coraggio di smentirla o contestarla pubblicamente. Cosa che io invece faccio in più di una circostanza. L’idea che nessuno possa permettersi di sollevare la minima perplessità sulle contraddizioni tedesche mi fa infervorare. Gli scambi con la Merkel sono duri su molte questioni, dalla flessibilità di bilancio al rapporto con la Russia, dalle scelte energetiche alla tutela del «Made in». Fino alle banche regionali tedesche — sul cui discutibile sistema di governance e controllo sono l’unico a puntare il dito in modo esplicito e trasparente — e alle contraddizioni della politica economica di Berlino (...) 

Nelle ovattate sale europee questo atteggiamento inquieta. «Non sai che pace c’è senza di te a Bruxelles», mi dice ridendo il primo ministro maltese Joseph Muscat quando viene a Torino al Lingotto nel marzo del 2017. Io però credo nell’Europa dei valori e dell’innovazione, della curiosità e della passione: non possiamo anestetizzare tutto e vivere di discussioni autoreferenziali. La Merkel non apprezza lo stile con cui apro — spesso volutamente — polemiche in Consiglio, ma inizia a scrutarmi per capirmi meglio, e tra noi nel tempo cresce un rapporto di collaborazione. Continuiamo a pensarla in modo diverso su tante cose, ma nei passaggi chiave la cancelliera non di rado ci dà una mano. (...)

Il messaggio di Angela

Durante un Consiglio europeo, avendo notato che sto scrivendo un sms a mia figlia — la quale, nella sua passione per la cosa pubblica, ha una naturale simpatia verso le donne che fanno politica —, Angela Merkel mi chiede il telefonino e invia personalmente a Ester un sms. Organizziamo un incontro bilaterale a Firenze e scelgo di fare la conferenza conclusiva sotto il David dopo aver visitato Palazzo Vecchio, la Galleria degli Uffizi e Palazzo Pitti. Giusto per ribadire che l’Europa è anche bellezza e cultura, non solo spread e austerity. E quando la saluto fuori dall’Accademia, Angela mi dice: «Ho capito più cose di te stando due giorni nella tua città che non in decine di riunioni insieme». Il tema su cui siamo più lontani è l’economia. Io credo che la politica di austerity adottata dall’Unione europea sia un tragico errore. Lei pensa che il mio sia un modo per continuare a rinviare le riforme strutturali di cui l’Italia ha bisogno. Il punto di partenza, dunque, è di diffidenza reciproca. (...)

Il duello su Juncker e i conti

Nel corso di un vertice all’Eliseo dell’estate 2014 riesco finalmente a portare tutti i colleghi socialisti sulla stessa linea. O c’è la flessibilità o noi non votiamo Juncker. Che rischia sul serio, anche perché nel frattempo perde i voti del Regno Unito e dell’Ungheria. La flessibilità, dunque, non è stata graziosamente concessa dall’Unione europea, ma è stata ottenuta a colpi di battaglia politica: un risultato reso possibile da un utilizzo deciso del potere di moral suasion da parte dell’Italia, aumentato dalla vittoria del partito di governo alle elezioni europee che arriva proprio nei mesi della presidenza di turno dell’Unione. (...) Quando Mario Monti o Enrico Letta dicono «Renzi ha avuto più flessibilità di noi», dicono il giusto. Perché noi la flessibilità ce la siamo presa, conquistata con sudore, fatica e voti. Ma questo non significa che noi abbiamo avuto più margini di bilancio, anzi: è vero il contrario. Com’è possibile? Monti approva il Fiscal compact, il Patto di bilancio europeo, nel 2012. Solo che, sorpresa!, quelle regole draconiane non valgono per lui, ma solo per i suoi successori, perché le norme entreranno in vigore dal 2015, non subito. Nei fatti, sono un regalino affettuoso ai posteri. Così, i vincoli di bilancio che hanno i governi dei miei predecessori sono ancora quelli dei vecchi parametri di Maastricht: per esempio, prevedono che il deficit non superi il 3% del Pil. Sia il governo Monti che quello Letta si attestano su quella cifra. Il mio governo, invece, scenderà fino al 2,3%: quindi noi abbiamo molti margini di spesa in meno di quelli che sono stati concessi a Monti e Letta. Di fatto, siamo più rigorosi di chi ci ha preceduto. (...)

Gli errori degli altri esecutivi

In un duro scontro in Senato Monti mi ha rimproverato di non saper trattare con gli altri leader europei. Se trattare significa cedere sul Fiscal compact o sulle banche, è vero: non so trattare come ha fatto lui. Ma fatico a considerarlo un errore. I governi precedenti si sono fatti imporre il Fiscal compact, noi ci siamo presi la flessibilità. I governi precedenti hanno messo le clausole di salvaguardia, noi abbiamo abbassato le tasse. I governi precedenti hanno firmato il Trattato di Dublino sui richiedenti asilo, noi abbiamo proposto il Migration compact. I governi precedenti hanno prodotto precarietà. Noi abbiamo prodotto il Jobs Act. (...)

Le scosse di terremoto di fine ottobre 2016 non causano morti solo per miracolo. (...) E che cosa fanno i soliti, puntualissimi, tecnici della struttura europea? Mentre crollano le case ti inviano un pizzino verbale — sotto forma di soffiata ai giornalisti italiani a Bruxelles — per dire che la legge di bilancio 2017 va bene solo se il deficit sarà ulteriormente ridotto di 0,2 punti. Stiamo parlando di spiccioli per un paese come l’Italia: appena tre miliardi di euro. Ma come si fa a non capire che, mentre tutti siamo concentrati sul sostegno agli sfollati e sulle necessarie linee guida per la ricostruzione, l’Europa dovrebbe essere con il proprio cuore nella basilica del patrono san Benedetto, invece di scegliere quel momento per fare una richiesta (marginale) di assestamento del deficit? Questo è quel che succede quando la politica abdica alla tecnocrazia.

Mi indigno. E vado in conferenza stampa senza bandiera europea. «Renzi vuole parlare ai populisti», commentano i social. Macché! Io voglio gridare alle burocrazie europee che davanti al dolore innanzitutto ci sono la compassione, il rispetto, l’empatia. E poi — solo dopo — gli accorgimenti tecnici. (...) 

Rispettare le regole europee, del resto, non può essere un mantra ideologico da sciorinare nelle trasmissioni televisive per diventare poi, quando si governa, un vago ricordo. Lo dico perché nel momento in cui entriamo a Palazzo Chigi, dopo due governi guidati da europeisti convinti — convinti a parole, forse, più che nei fatti —, l’Italia detiene il record di procedure di infrazione aperte: 121. Che non è un numero astratto ma sono soldi, multe, sanzioni. Ci mettiamo al lavoro e, grazie all’impegno di tutti, nel giro di tre anni riduciamo questo numero di quasi la metà.