Palazzi & potere
L’anomalia del lavoro autonomo in Italia
In Italia il 21% dei lavoratori si dichiara autonomo, seguendo nella classifica la Grecia al primo posto con circa il 29%, e superando la media Ue del 6%.
Un dato che però va spiegato perché spesso dietro la categoria del self-employed si nascondono rapporti di subordinazione o di persone che “ripiegano” sull’autoimpiego. Cosa si cela, dunque, dietro la categoria del lavoratore autonomo?
Secondo i dati dell’Eurostat calcolati su 30,6 milioni di persone auto-impiegate in Europa, tra i 15 e i 64 anni, l’Italia vanta un numero piuttosto elevato di self-employed, rispetto al contesto lavorativo di altre nazioni europee. Germania, Estonia, Lussemburgo e Svezia hanno percentuali di autonomi più basse, così come i tassi di disoccupazione: 4,3% per la Germania, 11% per l’Italia.
Incrociando i tassi di disoccupazione forniti dalla Banca Mondiale con gli stipendi medi dei Paesi OCSE, si giunge ad una considerazione importante: non solo esiste una correlazione tra tasso di disoccupazione e percentuali di autoimpiego, ma allo stesso modo più alta è la percentuale di lavoratori autonomi, più sono bassi i salari.
Sempre secondo l’istituto europeo i settori che coinvolgono più autonomi sono quasi tutte professioni di difficile approdo, dove si finge di essere autonomi pur di lavorare: non è un caso che le professioni scientifiche e tecniche siano toccate meno dal fenomeno.
Dimenticatevi quindi la carriera indipendente, perché l’autonomia del freelancing fa piuttosto rima con instabilità.
Tra le categorie più sensibili al fenomeno, in Italia, ci sono i giovani. La definizione di lavoratore autonomo ricorre spesso nella quota di popolazione under 35 che lavora fuori dal perimetro tradizionale dei contatti. Sempre secondo le valutazioni di Eurostat, il 35% degli occupati che si qualifica come freelance ha meno di 40 anni, sopra la media del 33% Ue.
Il lavoro autonomo e flessibile è la cartina tornasole di un mercato in continua trasformazione. Secondo uno studio americano, entro il 2020 il 40% dei lavoratori americani sarà self-employed, una condizione determinata dalla consapevolezza delle più grandi aziende che la produttività e i risultati si possono ottenere anche al di fuori delle quattro mura di un ufficio. Una percentuale quindi molto alta, quella americana, ma in perfetta tendenza con la digitalizzazione del lavoro. Per queste ragioni il record italiano non torna, certamente gonfiato da due fenomeni, come ricordato da uno studio dell’Università Bocconi: da un lato c’è l’uso improprio che si è fatto delle collaborazioni coordinate continuative, per cui si facevano passare per autonomi lavoratori che autonomi non lo erano, perché soggetti ad un rapporto di subordinazione, dall’altro c’è la condizione dei lavoratori che si sono trovati a ripiegare sul lavoro autonomo: con un accesso al mercato così fragile molti pur di lavorare fingono di essere autonomi.
Questa considerazione racchiude il fallimento delle politiche del lavoro attuate in Italia. Nel nostro Paese si investe pochissimo per misure di inserimento attivo nel lavoro e manca il personale qualificato. Se la Danimarca e la Svezia spendono rispettivamente il 2,05% e l’1,27% del Pil per le politiche attive, l’Italia con il suo rosicchiato 0,5% come può pretendere di essere competitiva?
Benedetta Fiani