La Brexit e la difesa europea: una domanda rimossa
Le borse in calo. I non inglesi a Londra preoccupati (e gli inglesi del Chiantishire?). L’eccesso di democrazia. Persino il destino dei calciatori stranieri in Premier League. Dopo la vittoria del “Leave”, sono questi i commenti che dominano in televisione e su internet. La discussione rispecchia la diffusa percezione di un mondo dominato dalle forze della finanza prima ancora dell’economia. Posizione rispettabile, per carità, ma tutt’altro che esclusiva, come dimostra la dolorosa riscoperta del senso di appartenenza e nazionalità.
Tra gli aspetti trascurati da quanti prevedono il declassamento del Regno Unito quello più importante è probabilmente quello della difesa (o, se si preferisce, sicurezza). Il Regno Unito è oggi una delle maggiori potenze militari del mondo, non solo per la qualità (ancora elevata) e la quantità (peraltro in calo) delle sue forze armate ma anche per l’arsenale nucleare e il seggio permanente del Consiglio di Sicurezza ONU. Due caratteristiche che – insieme alla spesa militare più alta d’Europa (56 miliardi di dollari contro circa 47 della Francia; l’Italia è a quota 21,5) – ne fanno un pilastro della capacità del Vecchio Continente di difendere sé stesso e i propri interessi «ovunque essi si trovino», come recitavano un tempo le istruzioni ai comandanti delle navi di Sua Maestà Britannica. E ora?
Secondo alcuni anche autorevoli analisti, la Brexit aiuterebbe il processo di integrazione della difesa europea, contro la quale il Regno Unito si sarebbe battuto. Per chi considera tale integrazione utile, o anche solo inevitabile, eliminare l’oppositore è un grande passo avanti. Sempre che l’UE sopravviva alle spinte centrifughe innescate dalla Brexit.
Il secondo punto riguarda l’indebolimento dello strumento militare europeo. Benché il Regno Unito resti nella NATO, questa non coincide con l’UE. Anzi, il problema di come allineare la visione americana – sempre meno interessata all’Europa, che vede poco più che come “force provider”, cioè fornitore di mezzi per le politiche di Washington – a quella UE è da decenni all’ordine del giorno, senza che se ne trovi la quadra. Senza l’apporto britannico, la difesa europea sarà più debole e dovrà spendere di più per sostituire risorse pregiate (perché costose, e dunque rare) quali aerei radar, da trasporto strategico e da guerra elettronica, ma anche sottomarini atomici e – tra qualche anno – le due nuove portaerei. Senza Londra, bisognerà fare a meno di queste risorse (e scendere di un gradino) o sostituirle.
Il deterrente nucleare, fondamentale sia in sé sia per poter sedere a certi tavoli, si ridurrà a quello francese, ampliando a dismisura il peso della Francia nella politica di difesa. La stessa Francia che, non dimentichiamolo, solo cinque anni fa diede un contributo decisivo alla destabilizzazione del Mediterraneo decidendo di attaccare la Libia, folle impresa nella quale trascinò il Regno Unito e, tramite questo, gli Stati Uniti.
Infine, il Consiglio di Sicurezza, nel quale Londra è uno dei soli cinque paesi con diritto di veto. Come si schiererà e come lo eserciterà sono domande alle quali è difficile rispondere. Se l’UE userà il pugno di ferro con Londra, è facile prevedere un gioco durissimo di botta e risposta, nel quale l’UE, che in Consiglio non siede, vedrà rimarcata la propria marginalità.
Ed è bene ricordare che se la Brexit dovesse portare alla disintegrazione del Regno Unito, con l’uscita della Scozia europeista, del Galles indipendentista e (chissà) di un Ulster riunificato con l’Irlanda, atomiche e veto resterebbero comunque all’Inghilterra, più piccola e più incattivita che mai.
Tante domande, poche risposte. Se il Regno Unito deciderà davvero di chiedere di uscire ai sensi dell’art. 50, l’UE potrebbe accorgersi di avere in mano molte meno carte di quante Schäuble, Monti e altri intransigenti hanno minacciato di usare.
PS – mentre scrivo, una lettera mi comunica che è stato annullato il dibattito previsto per il 28 giugno a Roma sul Libro Bianco della Difesa tedesca «in seguito all’avvenimento Brexit». Se il buongiorno si vede dal mattino...
Gregory Alegi
Consigliere Scientifico Fondazione ICSA