Palazzi & potere
Meno male che il coronavirus è scoppiato in Cina
Meno male che il coronavirus è scoppiato in Cina
Se la pandemia che sta colpendo la popolazione cinese fosse scoppiata in Puglia come la malattia degli Ulivi da Xylella, la Cina e il mondo, che pure sono in difficoltà rispetto a questa clamorosa e immensa minaccia, sarebbero sicuramente fritti. Infatti, scrive Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi, quando la Xylella cominciò a distruggere i primi ulivi in Puglia, la reazione degli estremisti ecologici (che sono quelli che fanno la musica che poi i media suonano con grande entusiasmo e senza alcun senso critico), la reazione degli estremisti ecologici, dicevo, è stata di totale negazione del fenomeno. Non c'è da allarmarsi, dicevano. I più sfacciati parlavano di un semplice raffreddore degli ulivi che sarebbe guarito da solo.
Di fronte all'ipotesi di espiantare dai 5 ai 10 mila ulivi per circoscrive l'infezione e risparmiare gli ulivi non ancora colpiti, la reazione dell'opinione pubblicata che è ben diversa dall'opinione pubblica fu violenta, minacciosa e sconsiderata. «Siamo di fronte», dicevano, «a dei cretini che, oltre a essere cretini, odiano anche le piante e il verde». E si sa che quando un cretino dà del cretino a un saggio, lui ha sempre la meglio, anche perché il cretino, non sapendo nulla, si nutre di verità assolute, certificate (da lui, è ovvio), semplici da spiegare a tutti perché la realtà è purtroppo spesso complicata mentre le palle sono inseribili e diffondibili in uno slogan che non solo propone il falso ma si fa anche credere come vero.
Ovviamente, contro la Xylella furono mobilitati dai volonterosi ecologisti, studenti disponibili a essere mobilitati (sempre meglio andare in campagna che a scuola), insegnanti di buon cuore e scolaresche sempre pronte a manifestare a favore o contro qualcosa meglio contro, ovviamente; è più facile e si ci sente più eroici: il sistema, signori miei, esiste per essere malmenato, no?.
C'è stato anche chi, in Puglia, sosteneva che le piante non erano state colpite dal parassita patogeno peraltro subito esattamente identificato dai molti tecnici che fortunatamente abbiamo anche in Italia e in Puglia, e spesso a livello eccelso). Tali piante, per chi si batteva contro l'espianto, dovevano essere solo amate di più. Da qui le maestre dal cuore buono (che ci stanno a fare, sennò? che portavano le scolaresche ad abbracciare gli ulivi che sono normalmente contorti ma che, in quel caso, in aggiunta al loro apparente strazio vegetale, stavano anche tirando le cuoia. Ma, nonostante la loro buona volontà, non c'era carezza, bacetto, parola dolce, compagnia, che riuscisse a salvarli così come a un gamba in cancrena non serve l'affetto dei parenti) ma ci vuole il bisturi del chirurgo, se si vuole evitare il peggio.
Per non farla lunga, l'opera di deciso ed esibito contrasto alla lotta efficace contro la Xylella, condotta traumaticamente contro le tecniche che, per fortuna, esistono, sono conosciute e sono state applicate (ma altrove), si è conclusa in questo modo: i cinque-diecimila ulivi che si «pretendeva» di espiantare per riuscire a circoscrivere l'epidemia, essendo stati lasciati a crepare per conto loro, hanno diffuso a milioni di altre piante tale flagello. Per cui, da una zona della Puglia, la Xylella si è diffusa non solo in tutt'Italia ma ha già anche raggiunto, da una parte, la Costa Azzurra (il Sud della Francia) e dall'altra l'Istria e la Slovenia.
Quindi, anziché i diecimila ulivi da espiantare, come si calcolava all'inizio di questa aggressione fitopatologica, adesso si calcola che gli ulivi infettati dalla Xylella siano non meno di 15 milioni e gli olivicoltori dei paesi a noi vicini che sono stati anch'essi successivamente investiti, per nostra dabbenaggine e ignavia, da questo terribile flagello, stanno adesso studiando il modo legale per farsi pagare l'immenso danno da loro subito. E se ce la faranno a far valere il loro diritto al risarcimento, saranno veri guai per tutti gli italiani, anche quelli che non sono andati ad abbracciare gli ulivi.
Per fortuna, dicevo, il coronavirus è esploso in Cina e non in Puglia o anche in Italia. La Cina infatti ha tutti i difetti di un paese dirigistico ma è anche capace di individuare con celerità le minacce che la investono e a contrastarle nei tempi e nei modi che una pandemia di questo tipo esige. In Cina, il principio demente perché smentito dall'evidenza, dell'uno vale uno, che da noi è stato assunto come metodo di governo (e che tanti e devastanti guasti aveva già prodotto in Cina, ai tempi della cosiddetta rivoluzione culturale di Mao) è stato seppellito da tempo.
Da loro, come si vede anche in questi giorni, vale la competenza e l'organizzazione.Loro il virus non lo abbracciano ma lo combattono con tutti i mezzi a loro conosciuti e a disposizione. E per riuscire a farlo in maniera efficace, ma sarà dura anche per loro, hanno mobilitato tutte le loro forze specialistiche e immediatamente allertato dei circuiti scientifici internazionali nei quali sono da tempo inseriti e dai quali possono venire delle risposte capaci di, almeno, ridurre i guasti.
In questa vicenda del coronavirus, la mondializzazione non è più uno slogan sul quale fingere di accapigliarsi, ma è una ineludibile circostanza che, pur creando rischi immani, può anche generare benefici enormi. Del coronavirus, la Cina non ha probabilmente colpa, anche se, al riguardo, già circolano le versioni più fantasiose anche se, per ora, non verificate. Di questo flagello, oggi, la Cina è la prima vittima che va aiutata da tutti, in tutti modi possibili, per poterne avere la meglio. È il mondo intero che deve farlo, non come altruismo (sempre benvenuto, peraltro) ma come convenienza. Prima si liberano i cinesi dal coronavirus e meglio staranno i paesi che non ne sono ancora stati investiti. Questo flagello può aiutare i popoli della mondializzazione a sentirsi sulla stessa barca, squassata da tante minacce ma che, insieme, si combattono meglio.