La “destalinizzazione” compie 60 anni. La lunga marcia dal Pci al Pd
Di Massimo Falcioni
Sessant’anni fa, al XX Congresso del Pcus tenutosi a Mosca dal 14 al 26 febbraio 1956, il capo dell’Urss Nikita Chruscev con il suo rapporto segreto denunciò gli errori e i crimini di Stalin scioccando i comunisti di tutto il mondo. Nel Pci di Togliatti ci si limitò a prendere atto del limite del culto della personalità e della violazione della “legalità socialista” da parte di Stalin rifiutando di riconoscere che il frutto malato dello stalinismo veniva dalla radice malata del comunismo incentrato sull’ideologia del marxismo-leninismo. Inizia da lì la crisi della sinistra italiana del dopoguerra, la “doppiezza” della “via italiana al socialismo” togliattiana e poi berlingueriana frantumata dal crollo del muro di Berlino del 1989 e dall’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991 anche se la sinistra ex Pci, fra trasformismi infiniti e delusioni mal celate, si è sempre rifiutata di capire i motivi di fondo di quel fallimento. Come scriveva Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: “I più evitarono di assimilare la principale lezione: si era dimostrata falsa, falsissima, l’idea che, sempre e comunque, il mercato sia il problema e lo Stato la soluzione. La falsità di quella tesi è all’origine del fallimento del comunismo. Non volendo prenderne atto, molti si raccontarono fole: anziché al nucleo duro della dottrina attribuirono il fallimento a fatti contingenti, come la presa del potere da parte di criminali quali Stalin, Pol Pot, ecc. Ma l’errore, invece, stava proprio nella dottrina”. Già, e nella concezione del partito egemonico nelle varie fasi della gestione del potere dove – come accadde col partito bolscevico dalla conquista del Palazzo d’Inverno e come accade ancora oggi dove i comunisti comandano – ogni fase di quella evoluzione scaturiva inesorabilmente dalla fase precedente. Rilevava lo storico polacco Isaac Deutscher: “Il governo del capo unico derivato da quello della fazione unica, come quello della fazione unica era derivato dal governo del partito unico”. Tornando al febbraio 1956 il 16 marzo il New York Times pubblica indiscrezioni della relazione di Chruscev in cui si condanna Stalin per aver imposto un “regime di sospetto, paure, terrore”. Il 4 giugno sempre il New York Times stampa integralmente il rapporto segreto di Chruscev riattizzando ovunque devastanti polemiche. Il 4 luglio il Dipartimento di Stato americano distribuisce un fascicolo di 58 pagine con la registrazione integrale del rapporto Chruscev. Scoppia la bomba in tutto il mondo. In Italia, al ritorno da Mosca, il 7 marzo, Togliatti risponde in modo sprezzante alle domande dei giornalisti che premono per saperne di più “Gli sciocchi e i venduti latrano e continueranno a latrare, ma di essi la storia non terrà conto”. Un vento impetuoso scuote il Pci, colto da un malessere e un disorientamento senza precedenti anche se la base comunista comincia a parlare di Chruscev come di un traditore e bolla come invenzioni le notizia della stampa. In una successiva intervista alla rivista di Moravia Nuovi Argomenti Togliatti tenta di risalire alle origini delle deviazioni che secondo lui non avevano alcuna parentela col marxismo e col socialismo ma, di fatto, mette per la prima volta sotto accusa il sistema anche se esclusivamente per i limiti nel “metodo”. Nelle sezioni del Pci il ritratto di Stalin resta al proprio posto. Nel Pci c’era chi accusava Chruscev per non aver lavato i “panni sporchi” in casa e chi, all’opposto, lo criticava per essersi limitato al contorno e non alla sostanza dei nodi politico-ideologici. A Chruscev va riconosciuto il merito di aver scoperto il pentolone insanguinato dello stalinismo ma resta evidente il limite di fondo. Al XX Congresso il successore di Stalin partiva con le accuse solo dal 1934 per salvare così Lenin e la rivoluzione; addossava tutti i mali del paese del “socialismo reale” alle deviazioni individuali del suo predecessore, addirittura cercando di rafforzare l’ideologia marxista-leninista e il ruolo del Pcus come unico suo interprete perché quella ideologia e quel partito si dimostravano capaci di ammettere gli errori e di correggerli. Così Chruscev e così, di fatto, tutti i partiti comunisti compreso il Pci, hanno sempre tentato di attribuire le degenerazioni e i limiti del comunismo a un sol uomo o a gruppi di dirigenti nel tentativo di salvare il partito, l’ideologia e l’idea comunista, ritenuti sempre infallibili. 30 anni dopo il XX congresso, Berlinguer, all’indomani del colpo di stato di Jaruzelski, dichiarò esaurita la spinta propulsiva dell’Urss. Era un altro passo avanti del comunismo italiano nel prendere atto della crisi del “socialismo reale” ma anche l’ennesima duttilità e capacità gattopardesca del Pci di inventare sempre nuove formule e nuove strade pur di sopravvivere senza però mai cancellare le proprie radici e i propri obiettivi di fondo. Di fronte alle tragedie storiche del comunismo, pur valutando positivamente i tentativi di revisione dei comunisti e dei post comunisti italiani, tuttavia bisogna riconoscere che né il Pci né il Pds-Ds e né gli altri spezzoni sorti poi dalle ceneri di quel partito, hanno mai “pagato dazio”, addirittura con la Dc e il Psi “eliminati” dalla scena politica con Tangentopoli e oggi (dopo la parentesi berlusconiana), con l’ultima evoluzione dell’ex Pci saldatosi con i reduci della sinistra ex diccì, al governo del Paese con il Pd renziano. La storia dirà se è giusto così. Il fallimento storico, ideologico e politico dell’ideologia comunista è sotto gli occhi di tutti. Ma altrettanto evidente è anche la crisi di identità del post comunismo made in Italy, anche di quello oggi nelle vesti indubbiamente nuove ma troppo strette del Partito democratico. E’ quella crisi di una sinistra incapace di trovare un approdo identitario per realizzare la vera svolta riformatrice, che principalmente limita e blocca ancora oggi il superamento della crisi politica italiana. Nel 1984, nel giorno dei funerali di Berlinguer, Occhetto e D’Alema strinsero il “patto del garage” per… rottamare la vecchia guardia. Obiettivo che i “quarantenni” raggiungeranno nel 1988 approfittando del “coccolone” subito da Alessandro Natta. I “giovani leoni” D’Alema, Occhetto, Mussi, Veltroni scalzarono Natta per “rottamare” quella generazione già togliattiana e già berlingueriana che non riusciva – al di là delle parole – a tagliare il legame con l’Urss o con le radici da cui anche il Pci era nato. Insomma, pare proprio che senza intrighi e senza camarille non sia possibile riformare un partito e la politica. Matteo Renzi, figlio non del Pci ma della Dc, ha voluto chiamare “rottamazione” quello che prima veniva bollato come “colpo di mano”. Evidentemente, secondo Matteo, quello era l’unico modo per escludere dalla tolda del comando D’Alema&C. L’obiettivo era e resta uno solo, quello del potere. Cui prodest?