Politica

Pd primarie, quel “milione” ai seggi con l’incubo del voto di maggio

Massimo Falcioni

Sul rush finale delle primarie del Partito Democratico arriva la doccia fredda, anzi la mazzata, delle proiezioni dell’Euromedia sulle Europee del prossimo 26 maggio con la Lega che sale (33,3% 28 seggi), con i Cinque Stelle (24,3% 21 seggi), FI (9,1% 9 seggi) e i Dem (16,9% 14 seggi) tutti giù, con i cespugli di sinistra sotto il 4%, quindi fuori dal Parlamento europeo. Con questi sondaggi che fanno capire l’aria che tira s’illude chi pensa che dopo mesi di discussioni, polemiche e insulti fra protagonisti e comprimari, il “capitolo primarie” Pd termini con la chiusura dei gazebo. Seguiranno nuovi scontri e nuove fratture sugli “inquinamenti” ai seggi (le truppe cammellate straniere, i minorenni, ecc.), sull’interpretazione dei risultati e sulle loro conseguenze. Il tutto, sotto una campana di vetro, rimpallandosi responsabilità e colpe, impelagandosi sul sesso degli angeli, fuori dal sano realismo di togliattiana e berlingueriana memoria. Dopo mesi passati a dilaniarsi, la campagna congressuale non ha trovato e non ha offerto una ragione politica credibile e valida per recuperare neppure un elettore dei tanti delusi, fuggiti e approdati altrove. I tre leader (chiamati così per convenzione) in corsa per la segreteria - Zingaretti, Martina, Giachetti – non si sono chiesti “perché” il Pd ha perso sei milioni di voti (5.958.242) in dieci anni, dove sono andati quei voti, quali gli errori commessi, come fermare la débacle e risalire la china. Il suo snaturamento identitario, politico e sociale (un partito passato dal chiodo fisso del rinnovamento e dalla difesa degli interessi dei ceti popolari alla difesa dello status quo e delle élite), il fallimento del riformismo trasformistico dei governi di centrosinistra a trazione Pd (con l’incapacità di porre mano alla crisi economica e con la grave sottovalutazione dell’impatto negativo dell’immigrazione incontrollata), hanno portato il pidì a questo stato di crisi trascinando nel gorgo tutta la sinistra e aprendo la strada al M5S e alla Lega.

Così, disilluso e sfiancato, nel disinteresse generale, il Partito democratico arriva alla finalissima delle primarie del 3 marzo dove il principale motivo di interesse, se non l’unico, è quello di verificare se la partecipazione al voto nei gazebo sarà sopra o sotto il milione. E’ mancata l’analisi e la proposta politica che il Paese attendeva: quale Partito democratico e quale ruolo del Pd e della sinistra per contrastare le forze di destra e sovraniste e dare uno sbocco “progressista” alla crisi italiana ed europea? I suoi dirigenti, consumati nel “gattopardismo”, non sono andati oltre i giochi di potere interni nella spirale consunta e autolesionista della contrapposizione fra “renziani” e “anti renziani”, con l’ex segretario ed ex premier convitato di pietra, impegnato, fra vecchi rancori e nuove minacce, a ritagliarsi il ruolo di “burattinaio”. Così il Pd non si è schiodato dalla sua crisi, incapace di svolgere un ruolo di opposizione nel Paese e in parlamento, chiuso nella sua torre d’avorio da dove bacchetta a vuoto perseverando nella propria arrogante presunzione di superiorità politica e morale. Il nuovo segretario del Pd, con Salvini nuovo “dominus” della politica italiana, persevererà nell’errore già commesso dai suoi predecessori nei confronti di Berlusconi, visto con disprezzo e disgusto sin dalla sua discesa in campo, ritenuto all’epoca un (fascista) alieno repellente, portatore di una alterità antropologica irriducibile. Oggi con Salvini, come allora all’avvio della seconda Repubblica con Berlusconi, Pd e sinistra conducono una contrapposizione ideologica e schematica, più di natura estetica che politica, rifiutandosi di comprendere le ragioni del voto degli italiani. La crisi che da anni colpisce in particolare l’Italia richiedeva una alternativa di direzione politica che l’attuale maggioranza di governo, pur fra limiti e contraddizioni, è stata in grado di esprimere dopo il voto del 4 marzo 2018. Il M5S e la Lega non esprimono oggi solo una maggioranza parlamentare ma, pur se tenuto con il cerotto, anche un blocco sociale capaci (grazie anche al prezioso ruolo del premier Conte) di portare a sintesi politiche e programmatiche contraddizioni e tensioni che vengono da lontano e travalicano i confini nazionali. L’Italia messa ko dai governi di centrodestra e di centrosinistra voleva il cambiamento e oggi il cambiamento c’è, non arrivato per il destino cinico e baro ma per volontà democratica degli elettori. Piaccia o no, Salvini, - con una leadership “ammantata di un’aurea nazional-popolare evoluzione mediatizzata del concetto gramsciano e con il suo stile non privo di ruvidità e incoerenze – è italiano fra italiani, non vergognandosene e non bacchettandoli, ma interpretandone bisogni e timori. Così il leader della Lega ha buttato una pietra nello stagno della anchilosata politica nostrana evitando all’Italia il cappio di potentati internazionali e l’obbligo di presentarsi al cospetto dei “mandarini” della Ue, genuflessi e con il cappello in mano. Cosa propone il Pd, oltre al suo logoro refrain dell’indignazione, dello sdegno, dell’insulto? Nulla. Se non la riproposizione di schemi programmatici falliti, non in grado di tessere alleanze, di ergersi a riferimento di gruppi sociali e politici in grado di dare risposte credibili alla crisi e di delineare le forze di un blocco sociale progressista. Le primarie non hanno indicato la via nuova per il “sole dell’avvenire” incapaci persino di scuotere le acque putride dello stagno da cui Pd e sinistra intorpiditi non riescono a venirne fuori.