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Politica
Quarta moglie e libro su Craxi. La seconda giovinezza di Martelli

All’età di 76 anni Claudio Martelli si rinnova in amore e sul lavoro. Per lui una seconda giovinezza inaugurata con un nuovo libro su Craxi e un altro matrimonio.

Martelli potrebbe tornare anche in politica? C’è chi dice che per lui sarebbe già pronto un posto nel Pd della nuova compagna, Lia Quartapelle, con la quale convolerà presto a nozze.

“Libertino e romantico” come usava definirsi nel 2000, il matrimonio con la parlamentare dem sarà per lui il quarto. Dopo la prima breve unione con Daniela Maffezzoli, che sposò all’età di 20 anni, e le seconde nozze, più durature, con Anna Rosa Pedol, pronunciò il fatidico sì con la giovanissima Camilla Apolloni Ghetti, di ben 30 anni più piccola.

“È da 28 anni che non mi sposo, non ne posso più!” aveva esclamato Martelli prima di sposare la contessina 26enne, ma sembra oggi aver trovato nuova energia con la 37enne Lia con cui presto convolerà a nozze a Tel Aviv.

Claudio Martelli, nuovo libro sull’amico Craxi: “L’antipatico”

“Bettino Craxi era antipatico perché incarnava la politica in un’epoca di crollo delle ideologie e di avversione ai partiti. Perché non temeva né di macchiarsi di una colpa né di affrontare l’odio. Perché era alto e grosso, ribelle e autoritario e anche se tendeva alla pace e sorrideva sembrava sempre in guerra” scrive Martelli nel nuovo libro su Craxi, “L'antipatico”, un ritratto inedito dell’uomo politico e dell’amico intimo.

Il racconto dell’ex Ministro della Giustizia è particolarmente rilevante, visto il legame che lo univa all’ex leader socialista. “Claudio è l’unico a poter aprire il frigorifero in casa mia” affermava infatti Craxi.


Craxi perno degli equilibri politici. Perchè il pool di Mani Pulite colpì lui - Il racconto di Claudio Martelli


In occasione dei 20 anni dalla scomparsa di Bettino Craxi, il ritratto inedito dell’uomo politico e dell’amico intimo, raccontato da chi ne ha conosciuto e vissuto l'ascesa e il declino.

 

“Bettino Craxi era antipatico perché incarnava la politica in un’epoca di crollo delle ideologie e di avversione ai partiti. Perché non temeva né di macchiarsi di una colpa né di affrontare l’odio. Perché era alto e grosso, ribelle e autoritario e anche se tendeva alla pace e sorrideva sembrava sempre in guerra. Perché diceva quel che pensava e faceva quel che diceva, anche le cose spiacevoli. Perché affascinava o irritava coi suoi proverbi popolari o mostrandoti l’altra faccia della luna; perché era sospettoso e coraggioso, razionale e realista fino al cinismo. Perché era sicuro, troppo sicuro di sé, e per dieci anni ha guidato la politica italiana e per quattro il governo coi migliori risultati. Perché sfidò gli USA di Reagan e l’URSS. Perché tenne in scacco la Dc e il PCI alternando coerenza e spregiudicatezza. Perché affrontò il partito del potere e del denaro. “Oggi, a distanza di vent’anni dalla sua morte, è possibile e anzi necessario ripensare Craxi e recuperare il suo lascito, per colmare il vuoto lasciato dal riformismo socialista e dal socialismo liberale. La sua figura suscita ancora tante domande e comprenderla può fornire tracce importanti per capire la crisi della sinistra, della democrazia liberale e l’irruzione del populismo e del nazionalismo in Italia e nel mondo. Questo libro non è una biografia, piuttosto il profilo umano e intellettuale di un leader e il manifesto politico che nel labirinto di intenzioni, di successi e di tracolli di un'’epoca appena passata districano i fili che la connettono alle contraddizioni e agli interrogativi dell'attualità." - Claudio Martelli

L'autore

Claudio Martelli, milanese, ha insegnato Filosofia all'Università Statale. Amico di Bettino Craxi, di cui era considerato il delfino, è stato deputato italiano ed europeo. Vicesegretario socialista negli anni ottanta, il suo discorso su "Il merito e il bisogno" resta la pietra miliare del rinnovamento liberale del PSI. Promotore con i radicali del referendum sulla giustizia giusta e di quello sul :- nucleare, divenuto vicepresidente del consiglio e ministro della giustizia, scelse come collaboratore` Giovanni Giovanni Falcone e con lui varò le principali leggi antimafia. Prima con la legge sull'immigrazione, poi con l'associazione Opera e, dal 2010, con Lookout — la prima web tv multiculturale — ha promosso l'integrazione degli immigrati e i diritti dei rifugiati.

Giornalista, autore e conduttore televisivo, vive e lavora tra Roma, Milano e Berlino. Nel 2013 ha pubblicato l'autobiografia Ricordati di vivere.

 

9788834601464 0 221 0 75
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Editore: La nave di Teseo

Collana: I fari

Anno edizione: 2020

In commercio dal: 16 gennaio 2020

Pagine: 223 p.

L'antipatico: Bettino Craxi e la Grande Coalizione

Sono dunque queste le ragioni, questi gli errori che co­steranno a Craxi di venir trattato dalla giustizia italia­na con "una durezza senza eguali", come scrisse Giorgio Napolitano in una lettera ai suoi famigliari? I nemici, e an­che qualche amico, sono soliti aggiungere un altro capo d'imputazione. Quello di avere cercato rifugio all'estero, piuttosto che consegnarsi a una giustizia violenta e di parte. Sicché anche l'esilio fu motivo di ulteriori condanne mora­li, feroci fino al dileggio: "Craxi latitante è scappato con il bottino", "Ha rubato anche la fontana di Piazza Castello e se l'è portata a Hammamet", "È andato a raggiungere i mi­liardi che ha grattato".

Veniamo così all'accusa che, puntata contro di lui come una lancia avvelenata, avrebbe cominciato a far mo­rire Craxi ben prima che lo stroncassero il diabete mellito, un tumore al rene, due infarti e un dolore sterminato, indi­cibile.

 

Il modo più comune per uccidere un uomo politico è quello di accusarlo di corruzione. Nel mondo anglosassone sono frequenti anche gli scandali sessuali, dal banale adul­terio a più sofisticate trasgressioni. In Italia, pur non man­cando la materia prima, difettano tanto l'ipocrisia quanto lo sdegno puritani — come di recente ha confermato la scar­sa eco degli scandali MeToo. Viceversa, da noi eccitano, in­fiammano e fanno corto circuito non solo quelli verosimili, ma anche i più cervellotici accostamenti tra la politica e la pecunia.

Nell'Italia delle fazioni e della faziosità, gli amici degli indagati reclamano il rispetto della presunzione d'innocen za, i nemici l'opportunità che si dimetta subito, tutti pronti, se torna comodo, a scambiarsi le parti al prossimo giro del la giostra mediatico-giudiziaria. Alla lunga ne è derivato un mix di assuefazione e indignazione, un'insorgenza morale ciclica o a singhiozzo mentre a comando le cronache non smettono di regalarci episodi di intrallazzi, frodi e corruzio ne. Inutile aggiungere che spesso nel prosieguo dei tragitt i processuali le responsabilità si dimenticano, le pene si atte nuano, alcuni sfortunati scontano condanne ingiuste, altri colpevoli la scampano e sono assolti. Ma ciò che in genere si omette di dire è che in questo nostro paese di fustigatori moralisti e di magistrati inflessibili il 90% dei reati resta im punito. Il 90%! 

Quando si tratta di un politico, la character assassination ­la distruzione dell'immagine o della reputazione del perso­naggio avviene in un teatro davvero speciale, e per così dire a reti unificate. Tv, radio, giornali ma anche piazze, ma­nifesti, comizi, chiacchiere... tutti i mezzi di comunicazio­ne si mobilitano e puntano lo stesso bersaglio davanti a un pubblico infinitamente più numeroso di quello che assiste a qualunque altra messinscena. Lo spettacolo è gratuito, si svolge in presa diretta, tutti possono assistervi con piacere, disgusto o sgomento. Non è previsto un lieto fine. Persino quando lo spettacolo termina con l'assoluzione dell'impu­tato, i pochi applausi non hanno eco, invece strascichi e pe­nosi danni collaterali continuano a tormentare lo scampato che resta sfregiato o azzoppato per sempre.

Nel caso di Craxi il cuore della materia, l'epicentro della storia , almeno, del suo tragico finale non è la scoper­ta della corruzione, semmai l'improvviso scoperchiamen­to e la scandalizzata messinscena di un sistema che durava da tempo immemorabile. Il sistema oliato e consolidato era quello con cui il "quarto partito"  quello del potere e del denaro  regolava, come sempre aveva fatto, i suoi rappor­ti con la politica. Comandanti e ufficiali del quarto partito in tutte le sue varianti imprese pubbliche e private, coo­perative, faccendieri d'alto o infimo rango compravano, finanziandoli illegalmente, partiti, uomini politici, amministratori e pubblici funzionari da cui, al centro e nelle pe riferie, dipendevano in qualche modo i loro affari e i loro appetiti di commesse, appalti, permessi, licenze e deroghe. Non di rado la politica e lo stato sfamavano i loro appetiti di leggi ad hoc per ottenere finanziamenti pubblici, per elu­dere tasse o per consentire eccezioni alle leggi vigenti.

A sua volta, la partitocrazia, replicandosi dal centro alle periferie dagli assessorati ai ministeri, dalla RAI ai consigli di zona e alle ASL - e allargando le sue competen­ze  letteralmente dalle culle alle tombe  e i suoi poteri i suoi rappresentanti gestivano o influenzavano tutto o quasi tutto -, era diventata sempre più esosa e invadente.

Le mance concesse dai ricchi e dai potenti in cambi, di favori erano diventate da tempo tangenti contrattualizza te, cioè un sistema oliato, collaudato e standardizzato. l h i sistema la cui efficienza era peraltro continuamente con, promessa dalle inevitabili liti spartitorie in una così compi i cata catena di autorizzazioni.

Sul finire degli anni Ottanta si compie un nuovo sali di qualità, cioè di degenerazione: il passaggio alla concezio ne in comune di nuovi affari tra politici e imprenditori privati, pubblici, cooperatori.

Ciò avveniva mentre a Maastricht si varava il libei mercato unico europeo, dentro il quale, per la prima vol ta, i nostri capitalisti sarebbero stati esposti alla concorrenza straniera. Si annunciava un'epoca nuova in cui gli stati noi avrebbero più potuto proteggere l'industria nazionale dalla libera concorrenza in un unico mercato, seguitando tutta­via a soggiacere alle pretese e ai condizionamenti dei gover­ni e dei partiti. Il governo e l'establishment avevano voluto Maastricht, l'Unione Europea e i suoi parametri, ma la politica e gli uomini d'affari, anziché prepararsi all'appuntamento, continuavano a riscuotere tangenti e a esportare capitali, a ungere e farsi ungere alla solita, cara, vecchia maniera.

Nella decisione della cupola italiana del potere e del denaro di aggredire la nomenklatura politica, e Craxi in particola­re, hanno certo contato la paura delle nuove regole europee e le conseguenze italiane del crollo dei muri. Alcuni - pen­so a Carlo De Benedetti e Eugenio Scalfari ma, in misura diversa, anche a Cesare Romiti da tempo covavano nei confronti di Craxi un'avversione profonda, un livore anche personale nutrito di tanti scontri di potere e di opposte vi­sioni politiche.

Ecco perché sostengo che l'epicentro di questa fase della storia di Craxi non fu la questione morale, ma l'acutizzarsi della spietata lotta di potere in corso da anni. La corruzione si era installata ai vertici della politica e delle istituzioni mol­to tempo prima. Basti pensare all'impressionante successio­ne di scandali nazionali degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta: dai mille miliardi (sic!) della Federconsorzi agli scandali delle banane somale e dei tabacchi, dalle tangen­ti dei petrolieri alla politica e alla guardia di finanza, alle lotte per il controllo della chimica, dal caso Rovelli al caso Sindona, dallo scandalo Lockheed a quello dell'IRI e a quel­li degli interventi nelle zone terremotate e alluvionate. E ne ho citati solo una parte.

Ciascuno di questi delitti eccede di tre, cinque, die­ci volte quello che sarà lo scandalo più eclatante di Mani Pulite, la cosiddetta tangente Enimont. Quella che Di Pietro definì "la madre di tutte le tangenti" in realtà era solo l'ultima "nipotina" di una ben più nutrita e corposa storia di soldi sporchi, di disastri economici, di incapacità e di disonestà politica.

Dov'era dunque, in cosa consisteva l'eccezionalità, l'e­normità e soprattutto la novità della corruzione pubblica, politica e partitica, che nel 1992 affondò la repubblica? Riavvolgiamo e riascoltiamo il nastro.

Il PCI ma non solo aveva sollevato la questione morale sin dal '48, attaccando i "forchettoni" e i "man gioni democristiani", e continuerà a brandirla, magari con meno virulenza in tutti i decenni successivi. Niente di strano: le opposizioni fanno così in tutte le democrazie. Berlinguer la rispolverò nel 1980 per colmare uno spaven­toso vuoto strategico e politico. E va anche ricordato che il bersaglio dichiarato di Berlinguer non era la corruzione, ma l'occupazione delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni da parte, come scrisse, "più o meno di tutti i partiti". Dunque anche del suo, il PCI.

In ogni caso, dopo avere denunciato la questione mora­le nel 1980, il PCI nel 1984 votò senza battere ciglio l'amni­stia per i reati di finanziamenti illeciti alla politica. Non basta. Ancora nel 1989, con il nuovo segretario Achille Occhetto, vota insieme con i partiti di governo un'altra amnistia.

Nuova, dunque, non era la corruzione, e nemmeno la to­tale autoindulgenza dei partiti, di tutti i partiti. Nuovo invece era il contesto: per i tempi mutati, per le novità internazio­nali intervenute, dal crollo dei muri al trattato di Maastricht.

La conseguenza del crollo dei muri e del comunismo è stata quella di mettere in campo un nuovo protagonista, o meglio un vecchio protagonista, che però aveva cambiato nome e non frequentava più le cattive compagnie di Mosca e dintorni. Non le frequentava più non perché avesse deci­so di separarsene, ma perché, nel frattempo, il comunismo sovietico si era dissolto.

L'altra novità fu la determinazione del quarto partito ad approfittare dell'estrema debolezza del potere politico per imporre i suoi interessi. Già col divorzio Banca d'Italia/ Tesoro c'era stato un trasferimento pesante di redditi dai contribuenti alla finanza. Con le liberalizzazioni e le priva­tizzazioni realizzate a spron battuto vi fu un altro impres­sionante trasferimento dai contribuenti alla finanza, questa volta di ricchezza. Una ricchezza di tutti, fatta di grandi  banche, grandi aziende, grandi beni pubblici. Certo, liberalizzazioni e privatizzazioni erano previste dal trattato dí Maastricht, che però non prevedeva che il modo italiano sarebbe stato quello effettivamente messo in atto.

A questo assalto alla diligenza intendeva partecipa­re anche il partito internazionale degli affari, segnatamente quello inglese e americano. Tutto si tiene, sua era l'ideo­logia della finanza globale e suoi gli strumenti. Le struttu­re finanziarie che al posto di quelle italiane negoziarono e pilotarono le dismissioni del patrimonio pubblico nel loro portafoglio clienti non avevano certo lo stato italiano. Una prova inequivocabile, il 2 giugno del 1982, la diede la cro­ciera nel Mediterraneo dello yacht personale della regina d'Inghilterra. A bordo del Britannia c'erano esponenti del­la City e di Wall Street già attivi nelle privatizzazioni della Russia di Eltsin. Gli italiani presenti erano imprenditori, fi­nanzieri, grands commis dello stato e delle istituzioni, a co­minciare da Beniamino Andreatta e Mario Draghi, all'epoca direttore generale del Tesoro, che svolse l'intervento intro­duttivo al seminario sulle liberalizzazioni. Unico ospite poli­tico l'ondivago Achille Occhetto, appena segnalatosi per la svolta pro- privatizzazioni inopinatamente propinata al suo partito, il partito postcomunista.

Non sarebbe dunque il caso di smettere di racconta­re la favola secondo cui quella di Tangentopoli e di Mani Pulite sarebbe solo e soltanto la storia di un pugno di magi­strati senza macchia e senza paura in lotta contro la corru­zione e quel mostro di Craxi? La corruzione, reale, odiosa, sistemica c'era, eccome: c'era stata, impunita o amnistiata, anche prima e ci sareb­be stata anche dopo. Craxi era parte del sistema e, "più o meno" per dirla alla Berlinguer, come gli altri leader si occupò anche di finanziamenti illeciti al suo partito. Mani Pulite servì a processare, condannare, eliminare i principali leader politici dei partiti di governo, a cominciare da Craxi, il più importante non perché era il più corrotto, ma perché era il perno degli equilibri politici.

Dietro le quinte dell'inchiesta più spettacolarizzata, dietro lo scontro tra i buoni magistrati e i cattivi politici, si tesse il vero ordito della storia: l'assalto del partito del denaro e del potere a un potere politico logoro, sfilacciato, demolito dalle inchieste.

Come si sa, la vittoria fu conquistata degli assaltatori. Un'epoca fu chiusa ma, imprevedibilmente, il nuovo ciclo si apre con l'inaspettato successo elettorale dí Berlusconi. Niente paura: in sei mesi la complessa macchina della Grande Coalizione creata dal quarto partito lo disarcionerà, condannandolo a cinque anni di opposizione. I governi ami­ci del quarto partito possono finalmente completare a modo loro l'opera iniziata nel '92: la vendita al partito del potere e del denaro di tutte le maggiori banche e di non poche delle più grandi e medie aziende pubbliche, at a very vice price.

 

 

 

 

 
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