Politica

Referendum, parla De Siervo: “Distruggiamo la sacralità della Costituzione"

Simone Cosimelli

Referendum, l'intervista di Affaritaliani.it al giurista Ugo De Siervo

Ugo De Siervo è tra i 56 professori che lo scorso aprile firmarono un documento di aperto No alla riforma Costituzionale. Con lui, tra gli altri, Gustavo Zagrebelsky, Roberto Zaccaria e Valerio Onida. E’ stato ordinario di diritto costituzionale a Firenze, e per 9 anni giudice costituzionale, terminando il mandato da Presidente della Consulta (dicembre 2010 - aprile 2011).

Ad Affari Italiani spiega perché questa riforma è un «gran pasticcio».

Professore, cominciamo dal nuovo Senato. In un bilancio tra rappresentatività e funzionalità, dove sono i limiti?

«Prima di tutto non si supera il bicameralismo, ma se ne introduce uno diseguale, purtroppo assai criticabile. Anzitutto la composizione del nuovo Senato non seguirebbe nessun modello consolidato. Il Senato non sarebbe né eletto dalla popolazione (così ottenendo autorevoli e forti senatori), né assomiglierebbe al modello tedesco, con la presenza di delegazioni delle Giunte regionali, quindi con forte caratura tecnica. Qui invece, con la riforma, si rifiuta – molto opinabilmente – l’elezione diretta dei senatori a favore di sindaci o di consiglieri regionali scelti senza alcun criterio a livello regionale.  I consiglieri regionali sono eletti per amministrare le Regioni, non per selezionare i nuovi senatori. In attesa di una futura difficilissima legge per ridare qualche potere agli elettori, verrebbero così scelti notabili regionali o chi si sta avviando a una carriera promettente nei vari partiti».

Vede il rischio di logiche clientelari?

«Sì. Esiste concretamente Il rischio di un Senato poco qualificato e quindi poco autorevole. Inoltre, non dimentichiamo che queste persone dovrebbero svolgere un doppio lavoro e quindi potranno impegnarsi solo nei ritagli di tempo. Il Senato avrebbe non poche funzioni, anche se frammentate, e in genere da esercitare in tempi rigidi (30, 15, 10 giorni). Per fare solo un esempio: in 15 giorni i nuovi senatori, andando magari a Roma due volte il fine settimana, dovranno dire la loro sul Bilancio dello Stato. Com’è pensabile? Significherebbe mettere lo spolverino su decisioni del Governo o della Camera».

Dunque non c’è un peso specifico delle istituzioni territoriali?

«Questo è il difetto maggiore. Tra le poche funzioni legislative piene che si attribuiscono al nuovo Senato non c’è nessuna delle materie nelle quali il Parlamento divide il potere tra Stato e Regioni. Il Senato, se vuole essere davvero l’organo che rappresenta e tutela le autonomie, dovrebbe intervenire in questi ambiti. Ma, invece, del tutto incoerentemente sarebbe la Camera dei Deputati, che tanto risente delle burocrazie ministeriali, a decidere sulle Regioni, con solo un parere del Senato. In conclusione, allora, avremmo un organo poco rappresentativo, che lavorerebbe in modo episodico e sarebbe privo dei poteri essenziali di tutela. Uno scenario certamente scoraggiante».

Niente semplificazione?

«Macché. Anzi, si moltiplicherebbero i dubbi sulla legalità di molte leggi dello Stato. Dovendosi disciplinare ruoli differenziati tra Camera e Senato, infatti, mediante termini diversi, materie diverse e così via, aumentano le procedure legislative con il rischio di un più frequente ricorso alla Corte Costituzionale per dissensi tra Camera e Senato, tra Regioni e Stato, tra cittadini e Stato».

E sulla velocità delle leggi potrà incidere il nuovo Senato? Detto che non sembra sia questo il problema. Dal ‘97 al 2013 ne sono state approvate circa 120 all’anno. E nella sola XVII Legislatura (dal 2013 a oggi) siamo a quota 243: una ogni 5 giorni. 

«Non abbiamo bisogno di più leggi da adottare frettolosamente, anzi. Ce ne vogliono di migliori, di più efficaci. Ma poi è falso che sia il bicameralismo che ritarda. Quando c’è la volontà politica dei partiti e delle coalizioni passa tutto in pochissimi giorni: perfino il Lodo Alfano, politicamente delicatissimo, è stato approvato in tre settimane. I ritardi derivano dai contrasti nel sistema politico e prescindono dal fatto che vi sia una o due Camere. Tra l’altro, col nuovo sistema ci vorranno, come minimo, una cinquantina di giorni per avere una legge: infatti, prima serve un’approvazione da parte della Camera (con tempi non quantificabili), poi 10 giorni perché al Senato si possa chiedere di dare un parere, e poi 30 giorni per esprimerlo; successivamente il testo tornerebbe alla Camera, per la seconda approvazione». 

Passiamo al Titolo V. Dopo le modifiche del 2001 in senso federalista, la riforma tenta un intervento. Non è quello giusto?

«L’attuale Titolo V deve essere corretto. Già la Corte Costituzionale lo ha largamente “tamponato”. Ma la riforma lo fa assai confusamente, tanto da riprodurre uno dei massimi errori del 2001, e cioè la cosiddetta clausola residuale: un’infelice disposizione che ha generato le maggiori conflittualità fra Stato e Regioni. E’ un punto complesso ma fondamentale. Secondo questa clausola, infatti, tutto ciò che lo Stato non si è trattenuto espressamente sarebbe di competenza delle Regioni. Ora, l’elenco delle leggi riservate allo Stato è molto aumentato, è vero, ma ci si è dimenticati di alcune materie importantissime, che non sono state elencate. Materie come l’industria, l’artigianato, il commercio, l’agricoltura, le miniere, la caccia, la pesca. Ma allora il naturale tentativo di alcune Regioni di esercitare il loro potere legislativo in questi campi, potrebbe essere bloccato solo (come è avvenuto finora) ricorrendo alla Corte costituzionale in nome di altre materie interferenti che sono di competenza dello Stato. Si tratta quindi di un gran pasticcio, che non farà affatto diminuire la conflittualità».

Eppure il fronte del Sì lo reputa necessario.

«In realtà l'attuale riforma usa in modo spregiudicato l’esistenza dei difetti della riforma del 2001: ne fa infatti derivare l’eliminazione sostanziale di quasi tutte le tradizionali funzioni legislative alle Regioni ordinarie. Mi riferisco alle materie assegnate nel 1948, e non a quelle accresciute 15 anni fa. Settori come la sanità, l’urbanistica, l’assistenza sociale, la tutela del paesaggio – tutte cose essenziali per l’amministrazione locale – vengono ora attribuite allo Stato centrale. Senza che se ne sia mai discusso, tra l’altro. Sarebbe un vero e proprio ritorno allo Stato accentrato. E altro nodo importante: tutto questo non riguarda le Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle D’Aosta, Friuli e Trentino, Ndr), il mantenimento dei cui privilegi è stato imposto da alcuni senatori rappresentativi di Regioni speciali. Queste Regioni tanto discusse diventerebbero immensamente più forti di quelle normali, con disparità di trattamento intollerabili».

Lei ha parlato del rischio di distruggere il concetto di Costituzione. Ci spiega meglio?

«L’idea di far passare una modifica costituzionale di grande consistenza con poco più della maggioranza assoluta (per di più utilizzando non pochi fenomeni trasformistici) e poi appellarsi al popolo con argomenti falsi e demagogici per farla approvare, espone la Carta al rischio che ciascuna maggioranza politica contingente voglia agire analogamente.  Così si logora lo stesso concetto di Costituzione come norma superiore alla politica e capace di accomunare tutti, al di là delle varie divaricazioni».

Questo vale il No il 4 dicembre?

«E’ una riforma troppo estesa – perché su piccoli interventi, come l’abolizione del Cnel, possiamo essere d’accordo - e nata anche sotto alcuni ricatti. Non dimentichiamo neppure che il Pd ha sostituito alcuni suoi componenti nelle commissioni parlamentari; e questo, di per sé, è un fatto grave. Al di là dei gravi errori a cui prima mi sono riferito, c’è una redazione formale molto inadeguata che lascia ampi spazi di approssimazione. Tutto ciò è stato approvato da un Parlamento eletto con il “Porcellum” e con 2-300 transfughi da un gruppo all’altro: davvero non mi sembra la stagione giusta per mettere mano in modo così profondo alla revisione costituzionale».

E il clima da barricate del Paese non aiuta.

«E’ diventata una battaglia iper-politica e iper-partitica. Sarebbe un errore votare dando un giudizio su chi adesso è al Governo, anche se bisogna dire che Renzi continua ad avere atteggiamenti assai sbagliati. Le riforme costituzionali dovrebbero essere discusse nei loro contenuti. Purtroppo, ancora oggi, si dice di voler entrare nel merito ma poi ci si ferma troppo agli slogan (spesso falsi) o al tentativo di impaurire gli elettori».