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"Vuoi diventare italiano? Impara a giocare a pallone". Oriundi sì, G2 no
Un paradosso sociale: la nazionale di calcio punta su giocatori nati in Brasile, ma chi nasce qui da genitori immigrati non è italiano
Italiani nati all'estero
Daniel è nato in provincia di Torino, figlio di immigrati dal Brasile: è un cosiddetto "G2", immigrato di seconda generazione. Ha 11 anni e non ha la nazionalità italiana, ma tifa per la Juve e per gli azzurri.
Jorge Luiz Frello Filho, meglio conosciuto come Jorginho, è nato 30 anni fa a Imbituba, nello Stato brasiliano di Santa Catarina. Lui non solo è italiano, ma con la maglia azzurra ha vinto gli ultimi europei e ora ha la chance di conquistare l’accesso al mondiale del prossimo inverno. Come lui, altri tre giocatori nati in Brasile sono stati convocati da Roberto Mancini per i playoff: Emerson Palmieri, Luiz Felipe e la new-entry Joao Pedro.
Gli oriundi e il calcio italiano
La storia degli “oriundi” è molto antica, affondando le sue radici all’inizio del secolo scorso. Durante il fascismo venivano chiamati “figli della Grande Italia” e non c’è dubbio che il loro apporto sia stato determinante nella conquista dei quattro titoli iridati del nostro calcio: nel 1934 ne avevamo cinque (Monti, Guaita, Orsi, Demaria e Guarisi), mentre nel 1938 c’era il solo Andreolo. Nel mitico mundial 1982, del quale sta per ricorrere il quarantennale, c’era Claudio Gentile, italianissimo ma nato nell’ex colonia di Tripoli e quindi soprannominato “Gheddafi”. Anche nell’ultimo successo mondiale, quello del 2006, c’era l’italo-argentino Mauro Camoranesi, che la sera prima della finale fu incoraggiato telefonicamente da Diego Maradona (mica da Conti, Causio o Paolo Rossi…) e che rispetto all’inno di Mameli ammetteva candidamente: “Non ne conosco le parole. Figuratevi che non conosco nemmeno il mio, quello argentino”.
Una discriminazione inaccettabile
In un mondo sempre più piccolo, è giusto che le leggi sulla cittadinanza cambino e si adattino ai tempi, ma quando si tratta di sportivi c’è sempre il sospetto di opportunismo: se la nazionale del mio Paese d’origine non mi vuole, trovo spazio in un’altra che invece mi apprezza. Al contrario, ci sono ragazzi che si sentono profondamente e autenticamente italiani, che hanno frequentato le nostre scuole, parlano la nostra lingua e sono intrisi della nostra cultura, ma la maglia azzurra non possono indossarla e, soprattutto, non godono degli stessi diritti degli altri cittadini italiani.
Finora non sono bastati i vari tentativi di risolvere questa ingiusta discriminazione: lo Ius Soli, lo Ius Scholae attualmente in discussione e persino lo Ius Sportivo, partorito certamente con nobili intenti, ma che a molti ha ricordato la scena di “Quo Vado” nella quale Checco Zalone viene mandato al centro di accoglienza di Lampedusa e fa entrare in Italia solo i migranti che dimostrano di saper palleggiare efficacemente.
Un’iperbole? Mica tanto. Auguriamoci davvero che l’Italia vada al mondiale, magari proprio grazie a un gol di Jorginho o del nuovo azzurro Joao Pedro, ma auguriamoci soprattutto che arrivi presto un giorno nel quale anche chi è nato e cresciuto in Italia possa sentirsi italiano, a prescindere dal calcio. Perchè questo paradosso va sciolto il prima possibile.