Privatizzazioni: per il governo strada in salita. E su Autostrade...
Cedere la quota statale di Mps frutterebbe meno di due miliardi, l'intero pacchetto di Enel circa 12. E su Aspi c'è l'incognita lock-up, ma l'interesse c'è
Piano di dismissioni del governo: ecco come potrebbe funzionare
Il primo dato di fatto è che il governo metterà nero su bianco che intende ottenere circa 20 miliardi dalle dismissioni, ovvero dalla vendita di partecipazioni in società. E subito si è scatenata la ridda di ipotesi: c’è chi dice che sul piatto potrebbero finire piccole porzioni delle grandi aziende quotate. Altri invece ipotizzano che il primo passaggio sarà Mps e che poi da lì “sarà tutto in discesa”. In realtà la vicenda è ben più complessa di come la si vuole fare intendere. Cedere quote di Eni, Enel, Leonardo o Terna rappresenta un bel rischio. Perché sono società che hanno in mano il futuro a medio e lungo del nostro Paese, che detengono asset strategici e che quindi non possono essere messe sul mercato con grande facilità.
Certo, il golden power tutela le aziende d’interesse strategico nazionale e quindi, a maggior ragione, può essere impiegato per quelle società in cui lo Stato rimane azionista. Ma c’è sempre il rischio di mandare un messaggio pericoloso: abbiamo disperato bisogno di liquidità. Oggi vendere l’intero pacchetto azionario di Enel, tanto per fare un nome, garantirebbe solo 12 miliardi, la metà del fabbisogno annunciato dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Diverso sarebbe il discorso se si procedesse a una dismissione di partecipazioni non più strategiche. Come faceva notare il QN, il fatturato aggregato tra tutte le tipologie di società in cui il MEF detiene quote di partecipazione, si attesta intorno ai 190 miliardi di euro, integrando oltre 288.000 dipendenti e 610 organi sociali.
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Non ci sono solo i big, dunque, ma anche altre realtà che però hanno inevitabilmente meno appeal. Vi sono poi le società non quotate come Ita, Equitalia, Cinecittà, Sogim e la preziosa partecipazione del 14% in StMicroelectronics, il gruppo attivo nei semiconduttori. Insomma, non c’è molto a cui fare appello. Complessivamente ci sono oltre 9.000 società, di cui un terzo è in perdita: difficile immaginare che possano fare gola a qualcuno. C’è anche da capire se il Mef abbia intenzione di conteggiare l’ex-Alitalia e Mps tra le cessioni per raggiungere i 20 miliardi o se queste siano date per “fatte”. Monte dei Paschi, d’altronde, deve essere ceduta entro l’estate 2024, come da accordi con l’Unione Europea. Se si dovesse vendere oggi a prezzi di mercato la partecipazione del Mef varrebbe poco meno di 2 miliardi. Cioè servirebbe a coprire il 10% del fabbisogno annunciato da Giorgetti.
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C’è poi un ulteriore segnale che rende complesso capire come si muoverà il governo. Da una parte c’è sempre stata una forte attenzione all’italianità e alle aziende nostrane, tanto che il dicastero di Adolfo Urso è passato dal chiamarsi dello Sviluppo Economico a del Made in Italy e delle imprese. Si immaginava una maggiore presenza nell’economia, tanto che la scelta di puntare 2,5 miliardi per acquisire una quota intorno al 20% della rete di Tim sembra puntare in quella direzione. E che dire di Poste Italiane, partecipata al 64% da Mef e Cdp, che decide con un blitz di acquistare una quota superiore all’1% di Mediobanca? Impossibile – al di là delle implicazioni in vista del prossimo cda del 28 ottobre – che il Ministero delle Finanze non sia stato informato e che Matteo Del Fante abbia agito in totale autonomia.
Dunque lo Stato torna in Telecom, rientra nel salotto buono di Mediobanca dopo un’assenza durata esattamente 35 anni e nel frattempo comunica al mercato che su altre partite è disponibile a trattare. Per questo, le notizie su Autostrade per l’Italia in vendita fanno immediatamente rumore, con offerta da parte del gruppo torinese Fininc. Intanto, per le cifre che circolano: 20 miliardi di euro, guarda caso proprio la somma di cui il Paese avrebbe bisogno secondo Giorgetti. Inizialmente da Palazzo Chigi arrivano le smentite di rito, poi però il ministro Matteo Salvini emette una nota in cui dichiara senza mezzi termini che se un imprenditore italiano come Matterino Dogliani è pronto a investire “è sicuramente di grande interesse”.
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Fonti accreditate vicine al dossier spiegano ad Affaritaliani.it che l’interesse c’è, è concreto e potrebbe decollare anche rapidamente. Bocche cucite invece dal Ministero delle Infrastrutture. Ma la cosa va definita anche dal punto di vista della governance. L’88% delle azioni, infatti, sono distribuite al 51% a Cdp Equity e al 49% al tandem Blackstone-Macquarie, mentre il restante 12% fa capo ad Allianz, ai cinesi di Silk Road e a Edf. Come riporta il Sole 24 Ore, Cdp e Blackstone-Macquarie hanno un accordo di lock-up che scadrà a maggio 2027. Impossibile dunque vendere quote per permette l’ingresso di nuovi soci. In linea teorica si potrebbe immaginare un ingresso “al piano inferiore”, che avrebbe però bisogno del consenso di tutti i soci.