Voto multiplo, da Tim a Generali e Banco Bpm: il governo accelera
L'esecutivo ha portato avanti il Ddl Capitali che verrà analizzato dal Senato. Paolo Savona è contrario, Sergio Erede anche: i punti critici
Voto multiplo, il governo vuole accelerare
La speranza neanche troppo nascosta è che la fuga in Olanda di Brembo sia solo l’ultima. Dopo aver dovuto incassare la partenza di Fca verso Amsterdam, infatti, Piazza Affari ha dovuto salutare la creatura di Alberto Bombassei che ha preferito spostare armi e bagagli in un luogo in cui la governance societaria è più vicina agli azionisti di lungo corso. L’esecutivo, dunque, ha scelto di accelerare sul cosiddetto Ddl Capitali che andrà all’esame del Senato. I capisaldi del provvedimento, disegnato e coordinato dal sottosegretario all’Economia Federico Freni, vuole ridare vigore al mercato asfittico dei capitali. Come? Attraverso l’introduzione del voto multiplo, o plurimo. Si tratta di una sorta di “premio fedeltà” per chi detiene un pacchetto azionario di rilievo da più tempo. E i diritti di voto potrebbero moltiplicarsi per due, per tre o addirittura per dieci.
Lo schema è quello applicato da Exor quando decise di trasferirsi in Olanda. All’epoca, infatti, la holding degli Agnelli aveva adottato un meccanismo che garantiva cinque diritti di voto per ogni azione posseduta dai soci che avrebbero detenuto le quote per almeno cinque anni. E 10 diritti di voto per chi le avrebbe tenute per due lustri. In questo modo, per avere il 51% dei diritti di voto sarebbe stato sufficiente controllare il 5,1% della stessa Exor. Anche Stellantis, nata dal matrimonio tra Fca e Psa, è quotata ad Amsterdam. Ed è in ottima compagnia: ci sono Iveco, Ferrari, Campari, Stm e, fra qualche settimana, anche Brembo.
LEGGI ANCHE: Pirelli, non solo Golden Power: scossone al vertice. Lascia a sorpresa il Ceo
La famiglia Bombassei, che detiene il 53,5% del pacchetto azionario di Brembo, si troverà a tendere a detenere il 77% dei diritti di voto. Più che una quotazione, una monarchia. Curioso, tra l’altro, che proprio l’azienda bergamasca, un fiore all’occhiello dell’industria nostrana, sia stata affiancata a più riprese a Pirelli per creare un colosso della componentistica auto. A lei si è guardato quando, in tempi recentissimi, il governo ha annunciato che attiverà il golden power sull’azienda della Bicocca. E proprio Brembo potrebbe essere l’ultimo colosso a lasciare Piazza Affari.
L’utilità del Ddl Capitali
Le aziende di piccole dimensioni temono che una volta quotate in Borsa perderanno il controllo storico per finire nelle mani del “babau” della finanza. E al tempo stesso Paesi con governance più semplici, come avviene appunto in Olanda, permettono di poter diluire la propria partecipazione senza per questo dover rinunciare al controllo. Insomma, si tratta di un tema non più procrastinabile perché le aziende hanno bisogno di nuova finanza, specie ora che il rialzo dei tassi rende complicato chiedere soldi in banca, ma al tempo non si vuole perdere lo scettro del comando.
Ma si tratta, come ha notato Andrea Zoppini, di un ritorno al passato: le azioni non si contano più, si pesano. E dunque basta un piccolo gruzzoletto per governare. D’altronde, se ci sono riusciti gli Agnelli – sempre loro – al tempo del “nocciolino” in Telecom, non si vede per quale motivo non si potrebbe fare qualcosa di analogo in altre aziende. Al momento la normativa vigente è ancorata al “Decreto competitività” voluto da Matteo Renzi per smembrare le banche popolari, quegli istituti fedeli al voto capitario, cioè una “testa”, un voto.
Ddl Capitali: che cosa succede con Generali e i rischi di “francesizzazione”
Ma veniamo alla pratica. Con l’applicazione del voto multiplo, che cosa succederebbe nelle principali aziende italiane? Intanto un chiarimento: Mediobanca, che andrà a scadenza in autunno, non sarà coinvolta dalla rivoluzione del voto plurimo. Generali, invece, potrebbe subire una trasformazione: Francesco Gaetano Caltagirone, Delfin e altri si potrebbero ritrovare improvvisamente con diritti di voto clamorosi pur senza avere la maggioranza assoluta delle azioni.
Attenzione però all’effetto boomerang. Un governo sempre molto attento all’italianità delle aziende – e ci torneremo – si ritroverebbe a consegnare mani e piedi Banco Bpm a Credit Agricole (che ha poco meno del 10% del capitale ed è il primo azionista) e soprattutto Tim, con Vivendi che, forte del suo 24% di azioni, sarebbe sostanzialmente inarrestabile. Bisognerebbe quindi trovare strumenti di pesi e contrappesi che rallenteranno di molto l’iter approvativo. E rischierebbe di creare un doppio precedente per le aziende straniere interessate a venire in Italia. Da una parte sarebbero tentate dalla possibilità di avere un gran peso senza svenarsi; dall’altra vivrebbero costantemente con la paura di un intervento del governo.
Ddl Capitali, le perplessità di Paolo Savona e di Sergio Erede
Secondo il numero uno della Consob Savona, è "necessario rilevare che la previsione di misure a favore degli aumenti di capitale, in combinato disposto con la citata proposta di estendere da tre a dieci i diritti di voto connessi alle azioni a voto plurimo, amplifica il rischio di limitare i diritti di voice delle minoranze, comportando la sostanziale capacità del socio di maggioranza, che risulti anche in possesso di azioni a voto plurimo, di far approvare una delibera assembleare di aumento di capitale esclusivamente con il proprio voto favorevole".
L’avvocato d’affari più importante d’Italia, Sergio Erede, ha di fatto smontato il Ddl in audizione alla Commissione Finanze. “"Il decreto in esame – ha spiegato - nulla dispone a questo proposito, nonostante il fatto che il decreto preveda che il moltiplicatore 3 sia sostituito con il moltiplicatore 10. Questa disposizione non risolve il problema perché riguarda l'emissione di azioni a voto plurimo, azioni che non possono essere emesse da società quotate. Quando Brembo o Cementir vanno all'estero sono già quotate e cercano un sistema che consenta loro di entrare in combinations senza far perdere al maggiore azionista il controllo".
La situazione è ancora molto complessa, dunque. L’Italia rimane l’unico Paese del G7 a non aver ancora superato del tutto la dottrina “una testa, un voto”. Negli Usa, ad esempio, Mark Zuckerberg detiene il 13,6% delle azioni di meta cui però corrisponde il 58% dei diritti di voto. E lo stesso succede con Google, LinkedIn e Amazon. In Francia tutte le società quotate prevedono il voto maggiorato del 100 per cento. Nella stessa direzione sono andati anche Belgio e Francia. L'Italia no, ma il rischio nanismo di un mercato dei capitali ancora piuttosto contenuto è sempre più ampio. Al governo la necessità di trovare una soluzione a un problema annoso ma non più procrastinabile.