Le 3 strade per arrivare al premierato. Meloni non commetta l'errore di Renzi

La maggioranza parlamentare che sostiene il governo, di concerto con una parte delle opposizioni (Azione e Italia Viva), ha deciso di puntare sul premierato

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma
Politica

C’è premierato e premierato, ma prima ancora di parlare degli aspetti tecnici della riforma il problema che si pone è come avviare il testo di riforma

Festeggiare la Repubblica significa festeggiare la Costituzione, che però non è immodificabile. Sono decenni che si parla di riforme costituzionali ma la forma di governo è rimasta quello del 1948. Molti dicono in line di principio di essere d’accordo con la revisione della Parte Seconda ma poi, se qualcuno ci prova seriamente, parte la solita solfa di sinistra dell’attentato alla Costituzione. Certo è che, di fronte a riforme pasticciate come quella del 2016 (guarda caso a firma Pd), meglio che le cose siano rimaste invariate. 

Attualmente se ne parla poco, ma pare che a breve le forze politiche torneranno sull’argomento. Vediamo come stanno le cose al momento. La maggioranza parlamentare che sostiene il governo, di concerto con una parte delle opposizioni (Azione e Italia Viva), ha deciso di puntare sul premierato. C’è premierato e premierato, ma prima ancora di parlare degli aspetti tecnici della riforma il problema che si pone è come avviare il testo di riforma. 

Le strade sono tre, con un unico comune punto di partenza: la procedura dettata dall’art. 138 della Costituzione che prevede due diverse deliberazioni di Camera e Senato sul medesimo testo, a distanza di almeno tre mesi l’una dall’altra. In prima deliberazione è sufficiente la maggioranza dei presenti (relativa), in seconda quella dei componenti (assoluta). Se in seconda deliberazione il ddl fosse approvato a maggioranza dei 2/3 dei componenti di entrambe le Camere (maggioranza qualificata), la revisione costituzionale non necessita di ulteriori passaggi; se invece il testo non raggiungesse la già menzionata soglia di voti, si procede a referendum confermativo (che non prevede quorum costitutivo) qualora ne facessero richiesta 500 mila elettori oppure 5 Consigli regionali ovvero 1/5 dei componenti di una delle due Camere. 

Vediamo ora le tre strade.
La prima è quella del disegno di legge di iniziativa governativa, che di solito è scritto di concerto – quando vi sono le condizioni politiche - con alcuni esponenti della maggioranza parlamentare. In tal caso al governo spetterebbe solo l’iniziativa, per il tramite del Ministro per le riforme istituzionali. Dopo di che il ddl verrebbe incardinato in commissione affari costituzionali di una delle due Camere e seguirebbe l’iter previsto dall’art. 72 della Costituzione (la cosiddetta procedura normale del voto articolo per articolo, emendamenti, discussione e voto finale sia in commissione che in aula) e ovviamente quello dell’art. 138. 

La seconda è quella di iniziativa parlamentare dove il testo o i testi, redatti da un numero indefinito di parlamentari, e sottoscritto da chi vi aderisca, vengono incardinato in commissione affari costituzionali e seguono l’iter sopra descritto (artt. 72 e 138 della Costituzione). Sarebbe un modo per stanare Pd e M5s che nel caso non presentassero una loro proposta dimostrerebbero di avere una posizione preconcetta per nulla costruttiva. 



La terza strada, un po’ come la settima luna di Lucio Dalla, è quella che volò via. La commissione bicamerale per le riforme. Va costituita per legge e deve comprendere un certo numero di parlamentari (sia di Camera che di Senato). La sua composizione numerica deve rispettare in proporzione quella dei gruppi parlamentari. Dopo di che l’iter è sempre quello dettato dagli articoli 72 e 138 della Costituzione. 

Ora, se tutti fossero d’accordo col modificare la Parte Seconda della Costituzione, crediamo che la soluzione migliore sarebbe quella della commissione bicamerale, ma politicamente porterebbe il governo a schiantarsi contro un muro, come accaduto alla bicamerale presieduta da Massimo D’Alema nella XIIIa Legislatura. Nonostante vi fosse già stato l’accordo politico tra D’Alema e Berlusconi a casa di Gianni Letta (il famoso “patto della crostata”), Berlusconi fece saltare il banco perché comprese la fregatura per il centrodestra rappresentato dal doppio turno alla francese. 

Quella dell’iniziativa parlamentare può essere tentata in prima battuta e, se si dimostrasse impraticabile, si dovrebbe obtorto collo puntare sull’iniziativa governativa con un ddl a doppia firma del Ministro per le riforme istituzionali e del Presidente del Consiglio dei ministri, il cui testo sia previamente concordato con tutti i leader della maggioranza e delle opposizioni che ci stanno (al momento, come si è detto, Azione e Italia Viva).

Dopo di che il governo dovrebbe lasciare al Parlamento la piena autonomia di proseguire l’iter di approvazione, senza commettere l’errore che commisero Renzi e Boschi nel 2014-2016, quando fecero tutto loro (ricordiamo sedute notturne con Renzi che si aggirava tra i banchi di Montecitorio) e furono puniti dal popolo in sede di referendum confermativo. Questa volta è il caso che il governo si limiti all’iniziativa e lasci fare tutto il resto al Parlamento, che in sede di commissione potrà invitare a relazionare gli esperti della materia, allargando gli inviti anche ad avvocati, professori e studiosi. Sia una riforma di tutti, non dei “saggi” che si inventò Napolitano nel 2013.

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