Prima serata
Ascolti tv, il dilemma di Matano: ecco perché il programma anti-giudici non va
Sono innocente, il programma di Alberto Matano su Rai Tre fa pochi ascolti. Quel clima nel Paese che non aiuta e...
Il programma di Alberto Matano su Rai Tre, concepito con le migliori intenzioni, vale a dire risarcire idealmente le numerosissime vittime della farraginosa macchina della giustizia, non funziona. I motivi potrebbero essere molteplici: la collocazione critica, la scelta delle storie che non sempre hanno lasciato traccia nell’immaginario collettivo, la debole declinazione autorale dei temi vagliati e, soprattutto, la mancata sintonia con il clima più colpevolista del paese.
Sicuramente, ‘Sono innocente’ – questo è il titolo del format in onda la domenica in prima serata e prodotto da NonPanic (Gruppo Banijay) – riflette le incertezze e gli errori di programmazione di una rete che da anni non ha più una precisa identità se non quella, ormai scomoda, ereditata dai periodi caldi della lotta ideologica contro Silvio Berlusconi.
Fu grazie alla contrapposizione al Caimano che il terzo canale del servizio pubblico individuò la sua ‘corporate identity’ più riuscita, consolidando prodotti molto innovativi messi poi in pista da Angelo Guglielmi e da altri talentuosi dirigenti come Stefano Balassone, e creando brand che sopravvivono ancora oggi. Quelli del de-marketing antiberlusconiano erano gli anni di Paolo Ruffini e del 'ruffinismo', che portarono alle estreme conseguenze il ‘telekabulismo’ di Sandro Curzi quando essere ‘anti’ premiava a prescindere anche dalla qualità.
Ora che Silvio fa molta meno paura ed è quasi un alleato del Pd – che tecnostrutturalmente è ancora il padrone della Rai – andare contro corrente non paga più, di conseguenza i nuovi prodotti stentano e Rai Tre rifrange tutti i problemi e le contraddizioni tipici dell'area politica cui fa riferimento. In questa crisi identitaria si inserisce l’esperimento di Alberto Matano. Il conduttore catanzarese preso in prestito dal TG1, va detto, ha dalla sua una forte notorietà, uno stile garbato e pulito e un’indubbia capacità di bucare lo schermo, qualità che lo ha trasformato in un ‘testimonial’ del telegiornale diretto da Andrea Montanari.
Il marketing della Rai ha pensato che abbinare queste caratteristiche antropologiche a un programma dalle tesi ipergarantiste quali quelle portate avanti da ‘Sono Innocente’ fosse una ricetta che avrebbe potuto funzionare. La credibilità di Matano serviva a far passare inchieste che, di fatto, mettevano sotto accusa gli errori della magistratura e le conseguenze spesso drammatiche che hanno determinato in chi li ha dovuti subire.
Un’operazione mediaticamente non priva di rischi, e la funzione di Matano sarebbe dovuta servire – si pensava –- proprio ad attutirne il messaggio per certi aspetti dirompente visto che era il servizio pubblico ad irradiarlo. Stato contro Stato. Non è proprio poco. Ma il cocktail si è rivelato di difficile digeribilità. Anche ieri sera il programma non è andato oltre il 3.4 di share, con 840.000 spettatori.
L’immagine è curata e lo studio è funzionale a concentrare l’attenzione sulle storie, ma il racconto procede lento e il processo di identificazione del telespettatore annaspa. Le storie scelte non sempre hanno lasciato traccia nella mente dei fan di Rai Tre. Si pensi all’ultima puntata, in cui sono stati trattati i casi di Domenico Morrone, pescatore tarantino di 27 anni che nel 1991 venne accusato dell’omicidio di due ragazzi minorenni all’uscita da scuola; di Stefano Messore, ritenuto – a torto- colpevole di essersi appropriato di cibi e vestiti destinati ai terremotati del Centro Italia; nonché di Aldo Scardella, nel mirino a soli 25 anni per aver ucciso il titolare di un negozio di liquori durante una rapina.
Nulla da dire sul rigore delle schede che valorizzano il formidabile archivio Rai e sulle ricostruzioni stile ‘Chi l’ha Visto’ , il punto più debole è proprio lo studio. Il pubblico assente (comprensibile, visto che sarebbero state imprevedibili le reazioni della ‘gente’ ) e la mancanza di un talk conclusivo sulla giustizia che non va, si fanno sentire.
Tra le motivazioni che possono spiegare le difficoltà del format ad affermarsi nei palinsesti Rai, ve ne è una più sociologica: il clima del paese non è cosi garantista, e forse non lo è mai stato. Gli italiani più che della giustizia penale si sentono vittime di quella civile, basti vedere i numeri impressionanti delle cause pendenti. Rai Tre, nel tipico solco dell'autoreferenzialità della sinistra, ha invece pensato che il 'popolo' si sarebbe potuto identificare più facilmente nei pur gravi errori giudiziari commessi dai PM, dalle Corti d'Appello, dai Giudici della Cassazione e quant’altro. Una visione legittima, sensata, ma pur sempre élitaria. La stessa, per capirci, che alimenta la convinzione fra gli addetti ai lavori che il dibattito sulle intercettazioni sia percepito come centrale dal ‘popolo’ per il futuro della democrazia. Un tema che, invece , interessa esclusivamente le classi dirigenti perché coinvolte nelle vicende e i giornalisti che dipendono da esse per pubblicare le notizie.
Il ‘sentiment’ del Paese (crudele finché vogliamo) va nella direzione opposta a quella indicata da Rai Tre. È vero che esistono molti errori giudiziari e che la popolarità dei magistrati sta andando a picco, come sottolineano numerose indagini. Tuttavia saltano più all'occhio i casi di impunità conclamata che riguardano i privilegiati e la upper class (vedi banche, vedi politica, banche salvate dalla politica, vitalizi, corruzione eccetera eccetera ) in cui si saldano le complicità fra le varie élite a scapito dei cittadini 'comuni'.
A discolpa del direttore di rete , Stefano Coletta, dobbiamo però dire che molti dei prodotti che si è trovato a programmare non sono frutto della sua linea editoriale e che,dipendesse da lui, forse in alcuni casi sarebbero andati in onda con tagli diversi. E , per dirla tutta, non è facile per nessuno doversi misurare con la noiosissima e irraccontabile ‘era del Nazareno’, distintasi solo per aver dato una pessima prova di gestione del potere da parte delle classi dirigenti, in primis il Partito Democratico.