“Non si può parlare di un vero e proprio modello di centro culturale italiano, e si vede dalle percentuali individuate che sono abbastanza distribuite”, spiega Marisa Parmigiani. “Cosa possiamo dire di questi anni in cui il bando si è riproposto? Sicuramente abbiamo visto diffondersi nuove pratiche di rigenerazione a base culturale in tutto il Paese e, soprattutto, abbiamo visto mutare le prime esperienze. Esperienze che si sono evolute da una logica focalizzata principalmente sulla rigenerazione dell’immobile ad aspetti più culturali e artistici. Siamo passati da una dimensione in cui l’immobile rigenerato e riqualificato in cui si posizionava il centro culturale era fondamentale per la definizione identitaria e la proposta culturale dello stesso, a una dimensione la cui scelta identitaria pian piano ha travalicato anche gli aspetti strettamente legati all’edificio. Un altro elemento che abbiamo visto evolversi in questi anni è la dimensione temporale della pratica, prima quasi episodica, assistevamo ovvero a interventi in un ambito temporale definito, il cosiddetto riuso temporaneo dei luoghi. Oggi invece i centri culturali diventano sempre più un attore dello sviluppo territoriale in cui sono collocati. Diventano non tanto centri artistici-culturali, ma veri e propri centri socio-culturali attori di innovazione sociale”.
La fotografia realizzata dall’Osservatorio 2020 della Fondazione Unipolis mostra come a livello geografico i centri culturali siano ubicati prevalentemente nelle regioni del Nord (45%), seguiti da quelli presenti al Sud e sulle isole (31%) e quelli delle regioni centrali (24%). Un dislivello geografico atipico rispetto ai dati raccolti negli anni passati, che evidenziavano invece una presenza più considerevole al Sud.
“Il divario geografico dei centri culturali proposti è cambiato moltissimo con quest’ultimo bando, di cui abbiamo modificato il beneficiario”, chiarisce Parmigiani. “Siamo passati da una logica di supporto di ‘start up’ del centro culturale, quindi di soggetti nascenti, a una di sostegno di centri che fossero in vita da almeno due anni. Questo ha portato più candidature da parte dei centri culturali del Nord rispetto a quelli del Sud, nonostante la storia di culturability che ha sempre visto una predominanza significativa di candidature dal Sud. Se andiamo ad analizzare i singoli casi e le caratteristiche che hanno reso alcuni di questi centri resilienti, trasformandoli da portatori di pratiche ed esperienze a veri e propri attori sociali, la relazione con la pubblica amministrazione ha giocato un ruolo importante. Ci siamo resi conto che dove la pubblica amministrazione ha saputo supportare i percorsi di questi centri, accompagnandoli e diventandone in qualche modo uno dei soggetti abilitanti, le politiche pubbliche di supporto hanno fatto sì che sopravvivessero molti più centri al Nord. Un caso emblematico in questo senso è quello della Puglia, dove con una serie di iniziative specifiche come ad esempio Bollenti Spiriti, la Regione ha lavorato molto sullo sviluppo di un ecosistema di start up a valenza sociale, questo ha fatto sì che la ricchezza delle proposte pugliesi si riconfermasse anche nel 2020”.
Altro punto toccato con la Dott.ssa Parmigiani, già Responsabile della Sostenibilità all’interno del Gruppo Unipol, è stato la capacità dei centri culturali di impattare dal punto di vista della sostenibilità sociale, ambientale ed economica sul territorio a cui sono legati.
“Con la Fondazione Unipolis abbiamo scelto di dare vita a culturability e di avere un ambito di intervento nella cultura partendo proprio dal tema della sostenibilità”, racconta Parmigiani. “Riteniamo che la sostenibilità abbia quattro gambe, non solo le tre legate all’aspetto ambientale, sociale ed economico. La quarta gamba è quella della cultura, perché come ha dimostrato bene una delle ultime pubblicazioni dell’ONU sul concorso della cultura al raggiungimento degli obiettivi 2030, è un fattore abilitante allo sviluppo sostenibile. Come riescono quindi questi centri culturali ad impattare dal punto di vista della sostenibilità? Riescono a farlo perché sono sempre più attori di innovazione sociale e riescono contestualmente ad attuare tre dinamiche. Innanzitutto riescono a ridistribuire valore nel territorio dove sono localizzati, sono realtà local based, quindi strettamente connesse al territorio, che portano buone pratiche dall’esterno. Parliamo di centri che sanno stare in rete, che hanno uno sguardo sia nazionale che internazionale e portano nuovi stimoli e spunti territorio. Da questo punto di vista, i centri culturali sono forieri e portatori non solo di nuove conoscenze, ma anche di nuove esperienze".
"In secondo luogo, attraverso la cultura noi introiettiamo i nostri limiti e impariamo di conseguenza a vivere i luoghi in cui ci troviamo e ad occupare il nostro spazio sulla terra in maniera diversa. Il documento ONU offre spunti interessanti rispetto alla trasmissione di contenuti attraverso cultura, arte ed esperienze. Potremmo darci dei testi, dei regolamenti per capire come comportarci per tutelare il pianeta, ma non potremo mai essere veramente efficaci come lo è una performance teatrale che ci rende protagonisti dell’esperienza".
"In fine, la cultura ha una dimensione abilitante non solo la comunità, ma la relazione di comunità. Il fatto di essere uno spazio abitabile, frequentabile e attraversabile dalle persone, è origine e fonte di creazione di comunità. Nel prossimo Rapporto di Sicurezza che pubblicheremo c’è un dato molto interessante da prendere in considerazione. Quest’anno, a causa della pandemia, non abbiamo frequentato i luoghi di cultura e quelli strutturati della costruzione del pensiero, e quindi abbiamo perso in socialità. I dati del rapporto mostrano una contrazione dell’impegno sociale e civico, perché le due cose sono assolutamente connesse. Impoverirsi culturalmente significa anche impoverirsi del confronto con gli altri e non sperimentare più la condivisione. Essere centri culturali significa essere luoghi che si transitano, centri aperti dove le generazioni si incontrano. Non si tratta del Teatro dell’Opera, che è un luogo di cultura che prevede un certo tipo di comportamento ed è precluso, ad esempio a bambini o a persone meno abbienti, il centro culturale è un luogo aperto a cui tutti hanno accesso, un luogo in cui tutti si confrontano e si contaminano”.
“Pre-pandemia abbiamo deciso di adottare questa nuova logica perché avevamo visto che nel nostro Paese una stagione si era conclusa, ed era la stagione dell’emersione”, continua Parmigiani. “La qualità, la varietà e la capacità del bando di attrarre idee si stava impoverendo, ma perché si stavano impoverendo i fenomeni sui territori, perché quello che doveva emergere era emerso. Il nostro stare in comunità con i centri culturali, con chi ha vinto e con chi ha frequentato i percorsi di formazione di culturability, aveva evidenziato la necessità di consolidarsi e di crescere. Abbiamo condotto un’indagine approfondita di valutazione di impatto del bando e delle condizioni di evoluzione dei centri, e ci siamo resi conto che non c’era solo un problema di minore qualità delle nuove proposte, ma contestualmente anche un enorme bisogno di consolidamento manageriale, gestionale e strategico dei centri che nel frattempo erano nati. La nostra scelta è stata perciò quella di aiutare e continuare ad accompagnare i centri già esistenti, in particolare quelli che si trovano fuori dai grandi centri urbani e dai luoghi della riflessione e del pensiero. Perché per crescere c’è bisogno sempre più di confronto e supporto”.