Costume

Daria Bignardi: "Ho avuto un tumore, mi prendevano in giro per i capelli"

Daria Bignardi, in un’intervista pubblicata da Vanity Fair, racconta per la prima volta del suo cancro

«Bisognava che a questa donna innamorata e divorata da un’ansia atavica succedesse qualcosa di molto forte. Un evento importante che cambiasse il tessuto delle sue giornate e dei suoi pensieri. All’inizio pensavo a un incidente, poi mentre scrivevo mi sono ammalata. “Nessuno è più di buon umore di un ansioso, di un depresso o di uno scrittore quando gli succede qualcosa di grosso”, ho scritto nell’aletta del libro. Qualunque cosa accada a uno scrittore, anche la più faticosa, lo troverà ad accoglierla con gli occhi illuminati perché attraversare un’esperienza forte è materiale per una storia. Prendere elementi dalla vita reale per la storia che stavo scrivendo è stato naturale».

Così Daria Bignardi, in un’intervista pubblicata da Vanity Fair nel numero in edicola da oggi mercoledì 14 febbraio, racconta («È la prima volta e anche l’ultima, spero») la genesi del personaggio di Lea Vincre, protagonista del suo nuovo romanzo Storia della mia ansia (in libreria dal 20 febbraio) che «non è un libro sulla malattia e non è un libro sul tumore, è una storia d’amore, e sul rapporto tra l’amore e l’ansia. Il cancro è soltanto un evento che lo attraversa».

Come mai non ne ha parlato fino a ora?
«Chi è ammalato considera la propria malattia il centro del mondo, ma anche se ho rispetto per chi sta soffrendo in questo momento, parlare pubblicamente della malattia in generale, o peggio ancora della mia, non mi interessa. Per tanti motivi: un po’ per pudore, un po’ per paura della curiosità o della preoccupazione degli altri, un po’ perché quando guarisci volti pagina e non hai più voglia di parlarne ancora. Ho superato una malattia seria, ma al tempo stesso molto comune. Si ammalano milioni di donne, a cui va tutto il mio affetto».

Quando ha scoperto di avere un tumore?
«Facendo una mammografia di controllo, appena terminata l’ultima stagione delle Invasioni barbariche. Sei mesi dopo, a una settimana dall’ultima chemioterapia, mi è arrivata la proposta di Campo Dall’Orto per dirigere Rai Tre. Gli ho raccontato tutto. Mi ha chiesto soltanto: “Sei guarita?”. Gli ho risposto di sì. “Ti aspetto a Roma”, mi ha detto e io sono partita».

Perché non ne ha parlato quando la prendevano in giro per i capelli corti e grigi? In rete si parlava di «look horror» e alcuni scrivevano che con la direzione di Rai Tre voleva fare la radical chic milanese. Perché non ha detto la verità?
«Il giorno della nomina, quando c’è stata la conferenza stampa a Roma, avevo la parrucca. L’ho portata per diversi mesi, era molto carina, capelli identici ai miei, anzi più belli. Poi andando avanti e indietro in continuazione tra Milano e Roma, a gestire ’sta parrucca, a un tratto, non ce l’ho fatta più. Un bel giorno l’ho tolta dalla sera alla mattina e mi sono presentata al lavoro con i capelli corti e grigi che stavano ricrescendo sotto. Ma non ho dato spiegazioni, tranne che ai miei vicedirettori, coi quali eravamo diventati amici».

L’hanno ferita le critiche preconcette?
«Ma no, sono vaccinata. Chiunque compare, soprattutto oggi, è oggetto di una tale massa di critiche che non bisogna esserne toccati davvero. In alcuni casi, le assicuro, mi dispiaceva per loro. Mi preoccupavo che rimanessero male se avessero saputo del cancro. Sono materna. E quindi rompiscatole. Vorrei fare da mamma a tutti».

Perché è finita con la Rai?
«Sono entrata con Campo Dall’Orto e il pensiero, forse romantico e ingenuo ma sincero, di rivoluzionare la Rai. Non c’erano le condizioni per farlo come avevamo in mente noi e quindi non c’erano più le condizioni per continuare. Quando Antonio è andato via, ho deciso che mi sarei dimessa. L’ho comunicato a Mario Orfeo e lui, che è una persona molto affettuosa e intelligente, per più di un mese mi ha chiesto di ripensarci. Quando ha capito che era impossibile, mi ha chiesto di preparare almeno i palinsesti autunnali. “Certamente” ho risposto. Ho lavorato a testa bassa e poi ho salutato».

Campo Dall’Orto e i suoi, inizialmente descritti come fantocci governativi, hanno finito per pagare la loro autonomia dalla politica?
«Campo Dall’Orto è un manager etico e competente. Quindi, credo sia come dice lei, anche se molte cose non le ho vissute in prima persona perché Antonio faceva da parafulmine a tutti noi: a me, a Ilaria di Rai Due, ad Andrea Fabiano di Rai Uno. Lui a noi diceva: “Fate come credete sia giusto”. Poi se facevamo scelte che fuori non piacevano pagava lui. Credo che a Roma non ci fossero abituati. Ma se sui social qualcuno, per fortuna ormai pochi, mi scrive ancora “schiava di Renzi” non so se si sia capito bene come abbiamo lavorato. Magari avremo fatto anche degli errori, ma senza pensare mai a chi conveniva cosa».