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Costume
Fase 3, inno alla gioia: qualche consiglio per il... ritorno alla vita
Casagrande&Recalcati_Ipervanitas 1710_2019_oil on canvas_100x150 cm

Di Maria Martello 

 

“Quando soffia il vento del cambiamento,

alcuni costruiscono muri,

altri mulini a vento”.

La grande lezione che la pandemia ci lascia è l’accettazione di quel che siamo veramente.

La vita può sorprenderci nel bene e nel male e farci toccar con mano che non tutto è governabile o facilmente gestibile. Ci dà anche l’opportunità di riflettere in modo serio su quanto è fragile la nostra vita e quanto valga la pena viverla in modo diverso.

Il coronavirus ha ucciso, in noi fortunati indenni, la parte bambina che resiste pur nell’età adulta: l’illusione di onnipotenza.

Certo natura non facit saltus dice Leibniz. La consapevolezza del nostro limite può essere acquisita a partire dal livello di maturazione di ognuno di noi.

Quel che abbiamo vissuto, per tutti è senza dubbio un avanzamento: ne usciamo accresciuti interiormente. Ed è importante anche un piccolo passo di ognuno nella direzione del cambiamento per creare un movimento virtuoso e inarrestabile verso una nuova qualità del vivere. Verso un nuovo umanesimo.

In questo periodo siamo stati intensamente allievi di un master accelerato di primario livello.Di quelli di alta qualità perché di tipo operativo. Infatti è ciò che direttamente si vive che lascia il segno e produce cambiamenti. E’ l’esperienza diretta che trasforma ed infatti molti dicono che sia maestra di vita. Molto di più di quanto lo siano le parole, le teorie, gli studi astratti.

Noi abbiamo visto la morte negli occhi, lo smarrimento di non avere sicurezze scientifiche a cui attaccarci. Il non saper come difenderci da pericoli reali ma invisibili. Abbiamo sperimentato la precarietà del vivere.

Tutti abbiamo provato la sospensione del nostro futuro e l’incertezza costante. Un qui ed ora che mettevano in stand by progetti e visioni a medio e lungo termine in un continuo cambiamento di scenario. L’angoscia ha preso il posto del sano dubbio e ha aperto domande su questioni più grandi di noi, esistenziali, sul nostro modo di stare al modo, nel rapporto con noi stessi, con gli altri, con le nostre emozioni più autentiche.

Di fatto, come l’uomo primitivo, nel periodo appena trascorso l’unico pensiero che ci assorbiva era la nostra sopravvivenza. Prevaleva la concentrazione su noi stessi, in un tempo in cui tutto il resto sembrava perdere valore compresa la focalizzazione sul business, sull’execution, sulla massimizzazione del profitto.

Questo assillo era solo apparentemente esorcizzato nel cercare di ridisegnare le nostre giornate: di fatto solo affamate di certezze, di consolazioni, del gusto di assaporare briciole d’amore e segni di nuova solidarietà.

Abbiamo toccato con mano la peculiare caratteristica umana quella dell’adattamento. Perfino ad una immobilità in uno spazio che può essere stato a volte ristretto, altre costrittivo o claustrofobico, privo di privacy, troppo popolato o troppo solitario, troppo pieno di suoni o troppo silenzioso,  oppure accogliente, caldo, sicuro. Uno spazio dove spesso malaguratamente il virus si è moltiplicato.

Il valore di questa esperienza sta quindi dall’averla vissuta in modo totalizzante e destabilizzante lungi da inutili semplificazioni o facili ottimismi.

Questo ci ha di fatto, obtorto collo, cambiato il mondo interiore preparandoci a nuove ed inaspettate possibilità che dobbiamo ora solo far emergere e non soffocare.

Il sapiente compito che oggi ci spetta è riprogettarci a partire dai nostri spazi interni per essere nuovi e utili all’esterno e focalizzarci su ciò che abbiamo scoperto come vitale in questo periodo: darci reciprocamente gioia.

Ne abbiamo fatto esperienza donandocela talvolta con maggiore continuità e intensità, altre volte più raramente e debolmente.

Ora dobbiamo metterla come vocazione della nostra vita “normale”.  Darci il diritto ad averla in ogni giornata, in ogni contesto. Possiamo donarcela: quindi è una possibilità, bella, da attuare, senza darla per scontata. Ma è affidata al rischio della nostra libertà.

Possiamo sceglierla come realizzazione del nostro senso del vivere, come via per favorire una migliore qualità di relazione tra le persone e maggiore accoglienza. Per costruirci giorni sereni.

Ne seguirà un nostro agire con risvolti molto differenti : per coerenza a noi stessi e non per dovere.

Proveremo stati d'animo diversi, reagiremo in modo nuovo alle difficoltà, alle incomprensioni, e avremo un atteggiamento positivo verso i propri e altrui limiti.

Ben diverso è quanto accade quando quel che facciamo agli altri viene vissuto come dovere da compiere secondo un criterio di più o meno equa distribuzione di compiti. Quando non arriveranno riconoscimenti o apprezzamenti, o quando osserveremo che altri approfittano di quanto fatto da noi, della nostra disponibilità nei loro confronti, o se ci sembrerà che altri si prendano troppo spazio, facilmente si faranno strada in noi tutta una serie di sentimenti e atteggiamenti negativi improntati all’irritazione, alla rivalità, alla reattività. Il dovere ci terrà legati a dei compiti ma vorremmo fuggire via.

Le diverse forme di rivendicazione  nei confronti degli altri , le rabbie, i rancori , i ricatti psicologici, spesso nascosti a chi li compie,  per lo più nascono sul terreno di una vita vissuta anche correttamente sul piano dell'assunzione delle proprie responsabilità  nei confronti degli altri , ma che proprio a motivo di questo,  si sente in credito.

Ciò soffocherà il proprio potenziale di darsi e dare gioia , se invece lo custodiamo come espressione di un nostro desiderio del cuore, e quindi come coerenza con noi stessi , questa  persuasione si esprimerà in atteggiamenti concreti come quello di alzarsi la mattina con pensieri di gratitudine, nonostante difficoltà e preoccupazioni, accompagnati dal desiderio di imparare a dare gioia e ad amare oggi più di quanto non si sia fatto ieri.

Solo chi si appassiona a questo scopo impara e si impegna a realizzarlo. Lo farà diventare sempre più la sua passione e lo assumerà come principio su cui costruire la propria identità. Ciò non esonera certo da sofferenze, ma solo da un certo tipo di sofferenze, quelle legate alla rivendicazione nei confronti degli altri, alla rabbia di non sentirsi compresi, accettati protetti. Alla non realizzazione del proprio essere.

Non saranno quindi modelli decisi da esperti, non saranno esortazioni paternalistiche, non saranno dichiarazioni d’intenti, o proclami, o certezze indiscutibili e granitiche, a riaprirci al futuro ma questa consapevolezza di ciò che in fondo davvero vogliamo.

E allora accadono i miracoli: “C’è un miracolo che accade ogni volta a coloro che amano davvero: più ne danno, più ne possiedono” (Rainer Maria Rilke).

* Formatrice alla Mediazione per la risoluzione dei conflitti secondo il modello umanistico-filosofico da lei ideato, ha insegnato Psicologia dei rapporti interpersonali presso l’Università Cà Foscari, già Giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni e la Corte d’Appello di Milano, autrice tra gli altri del volume “Sanare i conflitti “, Guerini e Associati Editore, “La formazione del mediatore” ed. Utet, “Mediatore di successo” ed. Giuffrè, “L’arte del mediatore dei conflitti”, Giuffrè, “ Educare con SENSO senza disSENSO” Franco Angeli. www.istitutodeva.it

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